Categorie: parola d'artista

SENTI CHI PARLA

di - 10 Giugno 2016
Passi è un’opera che ho realizzato più volte dal 2003 a oggi. Questo non significa che sia un’opera che si ripete sempre uguale, poiché ogni volta intervengono a mutarla: la geometria dello spazio, la sua acustica naturale, la significanza simbolica e politica del luogo e il suo contesto sociale e culturale. La sintesi, o se si preferisce il miscuglio e il dosaggio di questi elementi, attraverso una specifica progettazione, ne stabilisce una caratterizzazione autonoma. Lo scopo della progettazione è quindi di esaltarne, ogni volta, le differenti nature mantenendo come costante l’attenzione verso gli elementi che definiscono il rapporto tra l’opera e lo spazio che l’accoglie.
L’ex centrale elettrica di Daste e Spalenga è un edificio industriale costruito nel 1927, abbandonato alla metà degli anni ‘60 e solo parzialmente restaurato nel 2000. La sua unicità permette di declinare intensamente tutti i fattori prima citati. La sua geometria è regolare, una grande aula centrale che è di dimensioni quasi cubiche (circa 20mt di lato per 20 di profondità per 20 di altezza). Al suo interno risuona l’eco di uno spazio sacro, una sorta di “cattedrale” che, con colonne e capitelli, rimanda anche al tempio greco. Un luogo che non appartiene ad alcuna religione se non a quella del lavoro inteso, in senso moderno, come qualcosa in cui dover credere ciecamente. L’acustica dello spazio presenta un’eco naturale, da grande luogo cerimoniale. I rumori e le voci ci tornano indietro spontaneamente arricchiti da un riverbero che gioca sull’immaginazione per proiettarci in uno spazio immaginario ancora più grande di quello reale. L’eco, effetto sfruttato già nel teatro tragico greco e poi dai giochi acustici gotici o barocchi e oggi con l’elettronica, amplifica lo spazio rendendone visibile e sensibile il suo carattere di luogo di forza, energia, vitalità, luce. Dentro quel luogo siamo immersi in una sorta di white cube ante litteram, non appartenente a quella tipologia di spazi asettici e di provenienza ospedaliera dentro cui l’arte contemporanea si è formata e caratterizzata, bensì uno spazio bianco e vuoto, funzionale ma allo stesso tempo simbolico. Attualmente bianco, solo per transitorietà di uso non per rinuncia al colore, le sue pareti ci fanno pensare a una tela pronta ad essere dipinta. Non a caso un pittore anonimo, spruzzando del colore da una bomboletta, ha scritto la parola EKO su una delle pareti intonse, come fosse la didascalia dello spazio, il suo titolo naturale, la sottolineatura del suo carattere preminente.

Quest’edificio è in periferia, posto al centro esatto di una linea ipotetica che marca la direzione lineare del sole dall’alba al tramonto. L’alba alle spalle, il tramonto in faccia, in modo che la prima luce penetri dal retro attraverso le porte laterali della sala e l’ultima colpisca la facciata frontale come il sasso lanciato da una fionda, rettilinea, forte e rossa. La luce con la sua potenza proietta i fori della facciata esterna verso l’interno su quella che diventa all’improvviso una seconda facciata, stavolta interna allo spazio con la sala che si trasforma in una seconda piazza che dialoga con la piazza vera che gli sta di fronte, fuori. Si può cogliere questo meraviglioso movimento luminoso stando seduti su una tribunetta che volge le spalle alla piazza grande. Una piccola struttura di legno dipinta di rosso che accoglie poche persone per volta che, col sole alle spalle, divengono spettatori privilegiati di una proiezione riservata.

La tribunetta è un piccolo luogo concepito per tagliare alla vista la città o per ritrarsi, con l’amante del momento, dallo sguardo degli altri; la tribunetta, effimera e abusiva, volge le spalle alla piazza per ospitare chi decide di dirigere la sua attenzione alle viscere luminose dell’edificio stesso. Questo complesso meccanismo, naturale, artistico e urbano, propone tale luogo come una nuova centralità urbana da vivere in maniera irriverente e anticlassica, anche se tipologicamente rimarca l’insieme, tipicamente Italiano, di edificio e piazza antistante.

Il rumore dei passi dei visitatori, all’interno della sala grande, forma un crepitio puntiforme che spezza in due l’alto dal basso rendendo incerta la superficie dove normalmente poggiamo i piedi con fiducia. Una pellicola sottile, delicata e fragile alla pari di una superficie pittorica guardata da molto lontano, da un altro pianeta addirittura, comunque dall’alto, da molto in alto, tanto da poterci raffigurare la sua pianta come un quadro che genera tutto, meglio, un disegno dentro il quale ci muoviamo come punti luminosi. Ecco, infatti, che una delle ragazze dello staff di Contemporary locus (associazione che ha curato e prodotto progetto e opera) concepisce e realizza una APP che, proprio partendo dal movimento dello spettatore nello spazio, restituisce la forma del suo muoversi in una specie di costellazione unica e personale che congiunge immaginariamente terra e cielo.

La luce del sole, unica fonte d’illuminazione diurna, è inseguita e registrata da sensori all’interno della sala stessa, la sua energia è intrappolata da pannelli solari che la depongono dentro un accumulatore che la notte, dall’imbrunire all’alba, ne restituisce sinteticamente la potenza espressa durante il giorno appena trascorso. Così la tecnologia s’intromette nell’arco naturale del movimento della terra verso il sole per restituircene narrativamente il suo mutamento continuo e la relazione che intraprende con le cose degli uomini, fatte dagli uomini.
Passi, a Bergamo come altrove, è un’opera catalizzatrice di molti elementi ed energie, sia personali sia collettive. Un’opera che può essere realizzata solo grazie all’impegno di molti e di molte competenze diverse, che s’intrecciano in una dimensione armonica per un risultato che è, come sempre, sintetico. Nessuna fatica deve esprimersi e trasmettersi, se non quella felice che ognuno di noi esercita d’abitudine quando si trova di fronte al suo quadro preferito.
Passi – Alfredo Pirri
contemporary locus  10 |
Ex Centrale Elettrica di Daste e Spalenga, Bergamo
a cura di Paola Tognon
28 maggio – 24 luglio 2016
www.contemporarylocus.it

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