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talent hunter Elisa Strinna
parola d'artista
Padovana classe 1982, ha studiato a Bologna, Strasburgo e Venezia. Ha partecipato a workshop con Jimmie Durham, Maja Bajevic e ZimmerFrei. Interessata alla trasformabilità dei linguaggi, sperimenta più mezzi come il video e l'installazione...
Monnè, oltraggi e provocazioni dello scrittore guineano Ahmadou
Kourouma, L’affaire Moro di Leonardo Sciascia e ora sto leggendo le Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein.
Che musica ascolti?
Dipende, ho uno strano rapporto con la musica. Ci sono
lunghi periodi in cui non ascolto nulla. Mi piace spaziare dalla musica
classica a quella sperimentale in base ai miei stati d’animo. Sono molto
esigente in fatto di musica e spesso preferisco il silenzio.
Quali sono le città che consiglieresti di visitare e
perché?
Ultimamente non ho viaggiato quanto vorrei. Ci sono città
che ho amato molto, come Praga, di cui adoro le architetture, o Parigi, una
grande metropoli densa di proposte culturali e poesia, e città dove vorrei
andare come Mosca, per poter cominciare a conoscere la Russia; New York, di cui
mi attrae la vita culturale; Città del Messico, che m’incuriosisce per le sue
dimensioni; Istanbul…
I luoghi che ti hanno particolarmente affascinato?
Mi piacciono i luoghi freddi, silenziosi, dove ci sono
boschi con grandi alberi alti, luoghi aspri, rocciosi, dai climi estremi come
l’Isola di Faro dei film di Ingmar Bergman, ma amo anche le montagne con vista
sul mare della Liguria, luoghi da cui puoi contemplare un panorama ampio,
godere di una visione d’insieme delle cose.
Quali sono le mostre che hai visitato che ti hanno
colpito?
Nell’ultimo periodo ho visitato la Biennale di Venezia ma,
a parte qualche padiglione, che ho trovato molto stimolante, come quello ceco e
slovacco con Loop
di Roman Ondák, che ho vissuto come un’intelligente metafora, non l’ho amata
molto. Mi è piaciuta abbastanza la mostra di Mona Hatoum sempre a Venezia, per
la contestualizzazione delle sue opere in un antico spazio domestico; quella di
Gordon Matta-Clark a Siena: amo questo artista e ho trovato la mostra piuttosto
esaustiva; Anish Kapoor a Berlino, un’intensa esperienza estetica.
Quali sono gli artisti del passato per i quali nutri un
particolare interesse?
Amo Marcel Duchamp e il suo ermetismo, Gordon Matta-Clark,
il suo genio e il suo coraggio, Félix González-Torres e la poesia minimale di
certi suoi interventi, Pasolini m’incanta per la profondità visionaria ed epica
dei suoi film, Joseph Beuys per il suo attivismo e il suo interesse ai temi
sociali, Ingmar Bergman per la profondità con cui ha sondato l’animo umano, Bas
Jan Ader e la sfida estrema ai limiti del corpo, Leondardo da Vinci e la sua
creatività versatile e sperimentale…
E i giovani a cui ti senti particolarmente vicina,
artisticamente parlando?
Ci sono diversi giovani artisti di cui mi ha incuriosito
il lavoro, anche se in realtà non saprei indicarne qualcuno a cui mi sento
particolarmente vicina. Ultimamente mi sono interessata a Nicola Uzunovski e al
suo progetto di costruire dei soli artificiali in Finlandia, forse perché mi
piacciono la follia e il desiderio di sfida che questo progetto esprime, così
come qualche tempo fa mi colpì il lavoro di Robert Kusmirowski, DATAmatic880 alla Triennale di Torino, per la
modalità quasi filologica di ricostruire un passato disperso nelle ambiguità
della guerra fredda.
Passiamo ora al tuo lavoro. Che formazione hai?
La mia formazione è legata a studi che hanno avuto più o
meno sempre a che fare con l’arte. Infatti ho frequentato prima il Liceo
artistico e poi l’Accademia di Belle Arti. Terminata l’Accademia, dopo un
periodo di pausa, ho sentito il bisogno di continuare a mettermi in
discussione, così ho deciso di iscrivermi al corso di Laurea Magistrale in Arti
Visive allo Iuav.
Quanto la preparazione accademica influenza il percorso
artistico individuale?
È una domanda a cui non è facile rispondere. Credo che
molte delle accademie italiane non abbiano fatto del tutto i conti con la
storia. Spesso questo atteggiamento lascia poco spazio a una ricerca che abbia
solide radici anche nel presente o che possa proiettarsi senza incertezze nel
futuro. Nello stesso tempo l’Accademia mi ha aiutato a coltivare una passione
per la conoscenza totalmente disinteressata, spingendomi ad approfondire ogni
ricerca. Nel mio caso ho sempre preferito restare in qualche modo ai margini,
mantenere una certa distanza. Forse è per questo che, terminato il mio
percorso, sentivo che gli strumenti che avevo non erano sufficienti, avevo bisogno
di mescolare i metodi, i saperi, così mi sono iscritta a Venezia.
Hai partecipato a numerosi workshop con artisti. Quanto
sono stati importanti per la tua formazione? Che ricordi hai?
Sono stati fondamentali. La possibilità di lavorare,
conoscere e confrontarsi con artisti radicalmente diversi è stata veramente
stimolante. Aiuta ad affrontare un argomento da più punti di vista, a non
accettare un’unica visione delle cose. Tra i ricordi più belli sicuramente c’è
Jimmie Durham: grazie a lui mi si è letteralmente aperto un mondo, un nuovo
modo di guardare le cose. Anche l’ultimo workshop a cui ho partecipato con
Peter Friedl alla Fondazione Spinola Banna è stata un’esperienza intensa, che
mi ha portato a riflettere profondamente sulla responsabilità dell’artista.
Come descriveresti la tua ricerca?
Per quanto abbia sperimentato ambiti diversi, credo che
ciò che ha mosso la mia ricerca fino ad ora sia una riflessione sul tempo. In
una prima fase mi sono concentrata sui limiti che determinano e costituiscono
l’esistenza, da qui per esempio il mio video Sospensione, un lavoro che nasce
come interpretazione sull’esperienza dell’esistenza umana. Successivamente mi
sono avvicinata alle trasformazioni che il tempo produce sul corpo umano e
sulla materia e ho cominciato a interessarmi alle tracce, ai segni, al
linguaggio e alle diverse modalità di trasmissione della memoria. In questo
modo sono nati lavori come Grandmother, un ritratto che si adegua al tempo vissuto dal
soggetto, o Sinfonie Sismiche, l’ultima opera a cui mi sono dedicata, in cui ho
studiato un modo per tradurre i sismogrammi dei terremoti più rilevanti
avvenuti in Italia negli ultimi cent’anni in musica, nell’intento di poter dare
in qualche modo voce a ciò che è già stato.
Usi diversi mezzi, come il video, l’installazione e il
disegno. Per quali nutri particolare interesse?
Ho avuto periodi in cui mi sentivo più affine a un mezzo
piuttosto che a un altro, ma alla fine per me rimangono fondamentali l’idea e
la sensazione che voglio trasmettere, da qui deriva il mezzo che scelgo di
utilizzare. Il disegno è l’unico strumento che ritorna, è il punto di partenza,
lo strumento che mi permette di fissare il processo, seguire e sviluppare il
pensiero. Diciamo che comunque sono più attratta da mezzi in cui sia insito il
movimento, tramite i quali è possibile provocare o evocare una trasformazione.
C’è una tua opera a cui ti senti particolarmente
legata? Me ne vuoi parlare?
Un’opera a cui sono particolarmente legata è Wood Songs, un’installazione realizzata in
collaborazione con l’artista Eva Cenghiaro, composta da una serie di dischi di
legno che vengono suonati da un giradischi. Quest’opera, nata appunto durante
il workshop che ho seguito con Jimmie Durham, ha segnato una svolta piuttosto
fondamentale nella mia ricerca. Infatti è grazie a questo lavoro che ho
cominciato a riflettere sulla possibilità di poter trasferire in una
manifestazione della cultura dell’uomo la storia della natura.
Che responsabilità ha oggi un artista?
Per quanto mi riguarda, un artista ha il compito di porsi
delle domande e la sua arte è una risposta o una messa in questione di tali
domande. Non esiste un unico modo di creare arte: ci sono artisti che scelgono
di raccontare il mondo, altri che scelgono di reinventarlo, altri che danno
forma a sogni, ma credo che l’artista dovrebbe essere consapevole del fatto che
ogni scelta formale e di contenuto da lui realizzata può contribuire a
determinare la visione e la lettura del mondo che ci circonda. Un’eccessiva
leggerezza spesso alimenta sistemi di pensiero che, invece di arricchire,
impoveriscono la produzione culturale. Oggi purtroppo c’è la tendenza ad
ammiccare a sistemi di potere che favoriscono l’individuo piuttosto che la
collettività. E spesso il mondo dell’arte invece di opporsi a questa tendenza
ne riproduce la struttura.
Pensi di rimanere in Italia nei prossimi anni?
Non credo. Sento il bisogno di viaggiare.
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Elisa
Strinna a Genova
talent hunter è una rubrica diretta
da daniele perra
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n.
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