Cosa ti cade
dagli occhi di Gabriele
Picco e La scienza della cultura di Leslie White.
Che musica
ascolti?
Ho un’anima
rock e ultimamente sono tornato ad ascoltare Iron Maiden, CCCP, Clash e
Ramones, anche se ho il vizio di mettere in loop i pezzi che mi piacciono. Per
quanto riguarda il fanatismo amo i Depeche Mode, gli Ultravox, i Primus e gli
AC/DC, che ho visto per la prima volta a 13 anni.
Città che consiglieresti di visitare e perché.
Los Angeles, dove vivrei, Istanbul, in cui è
stato molto bello entrare in contatto con le persone. Ad Atene sono stato
diverse volte e l’ho sempre trovata molto divertente.
I luoghi che ti hanno particolarmente
affascinato.
A New York è bellissimo camminare per strada,
sono rimasto colpito dai fiumi di gente che attraversano ai semafori. Ho avuto
la pelle d’oca la prima volta che ho visto Piccadilly Circus a Londra, il
cimitero ebraico di Praga e gli uffici della Stasi di Berlino, con la signora
che serve la torta e il caffè fatto con la moka nel salottino dove proiettano
film sulla DDR. Trovo affascinanti il Vittoriale di D’Annunzio e la casa di
Luigi Ontani a Roma. Ho visitato come un museo Dover Street Market a Londra.
Le pellicole che hai amato di più.
Barry Lyndon di Kubrik, Old boy di Park Chan-wook, I sette samurai
di Kurosawa, L’enigma di Kaspar Hauser di Herzog, Capriccio
all’italiana (AAVV), Il Vizietto di Molinaro, Gruppo di famiglia
in un interno di Visconti, Lo zio di Brooklyn di Ciprì e Maresco.
Ultimamente sto guardando i film di Sorrentino.
Le mostre visitate che ti hanno lasciato un
segno.
Finiti gli studi ho fatto i primi giri a Milano
e sono rimasto colpito da Liliana Moro da Emi Fontana e da Anna Galtarossa in
Viafarini. Quando ho visto le opere di Pollock e dei diversi esponenti
dell’espressionismo astratto, oppure di Rauschenberg, negli Stati Uniti, ovvero
nel loro “habitat naturale”, sono rimasto molto colpito. Per la prima volta ho
capito la connessione della loro arte con la cultura americana e la forza
comunicativa che è stata in grado di sviluppare. Vorrei anche citare Barney e
Beuys, visti in più occasioni.
Gli artisti del passato per i quali nutri
interesse.
Durante gli studi ho amato tutte le prime forme
scultoree, cito la città di Ur
in Mesopotamia; via via ho trovato interessanti Jacopo Della Quercia, Blake,
Brancusi, Tzara, Man Ray e Joseph Beuys.
E i giovani a cui ti senti vicino, artisticamente
parlando?
Più che di età anagrafica, parlo di ricerca:
Delvoye, Höller, Fisher, Rondinone, Pardo e, tra gli italiani, Liliana Moro,
Roberto Cuoghi e Italo Zuffi. Tra i miei coetanei apprezzo molto Cleo
Fariselli, e penso che stia sviluppando un ottimo lavoro Marta Pierobon.
Che formazione hai?
Ho studiato Scultura all’Accademia di Belle
Arti di Carrara.
Stai seguendo un workshop con Liliana Moro alla
Fondazione Spinola Banna. Cosa ricorderai di quest’esperienza?
L’opera della Moro Underdog, vista nel
2005, ha cambiato radicalmente il mio modo di vedere l’arte… Credo che
fondamentale per la buona riuscita di un artista sia concentrarsi sul proprio
lavoro, e pensare a quello prima che ad ogni altra cosa. In questo, rapportarmi
con Liliana dopo qualche anno di ricerca personale è stato molto importante,
conferma le mie aspettative.
Le tue opere sono il frutto di una lunga
documentazione e ricerca. Da cosa attingi?
ll mio lavoro attinge dalla realtà. Quando è
possibile cerco di introdurmi in piccoli sistemi di relazioni con cui entro in
contatto. Quando ciò non è possibile, conduco studi su “sistemi” analizzati da
altri e ne traggo le mie conclusioni. Mantengo costante l’esigenza di esercitare uno sguardo privo di
pregiudizi, che sia il più oggettivo e preciso possibile. Cerco i particolari,
a volte lievi dettagli marginali, che poi considero come punto di partenza per
un’elaborazione successiva. Mi piace esaltare la proiezione emotiva che spesso
sorregge la realtà in un’impalcatura di riferimenti psicologici.
Quanto è importante nel tuo lavoro la cultura
popolare?
Direi che è legata più alla singola analisi che
alla ricerca in generale. Gli scorci di realtà su cui pongo il mio interesse
possono essere popolari quanto assolutamente sconosciuti ai più.
In occasione di Short Visit (progetto curatoriale itinerante,
ideato da Paola Gallio e Davide Tomaiuolo), durante cui hai aperto il tuo studio al pubblico, hai realizzato
un’opera site specific inglobando parti di strumenti musicali che non si sono
trasformati in “macchine celibi” ma hanno mantenuto la loro funzione. Tanto che
sono stati poi utilizzati per un live. Mi vuoi raccontare questo progetto, che
se non sbaglio è in progress?
Questo progetto intitolato Skull nasce da un episodio avvenuto
durante la mia infanzia, quando vidi un mattatoio nel quale venivano uccise le
vacche tramite un chiodo sparato nel cranio. Ho sognato questo episodio fino
all’adolescenza. L’idea di partire dall’immagine del teschio riconduce alla
storia della trapanazione cranica nel corpo umano, una tra le più antiche
operazioni chirurgiche praticate dall’uomo. È interessante sapere che gli
strumenti legati a questo procedimento venivano “travestiti” da
qualcosa di diverso al fine di non spaventare il paziente. Gli strumenti-ossa
che hai visto in studio ripropongono concettualmente questo tipo di travestimento.
Il tuo lavoro, hai dichiarato, consiste nella
produzione di elementi che assumono l’aspetto di resti. Potresti approfondire?
Rispondo parlandoti di un mio lavoro del 2009,
in cui il rapporto realtà-resto è ben strutturato. Il lavoro è intitolato Tamburo ed è stato
progettato e realizzato dopo aver appreso la notizia della demolizione di
alcuni grossi edifici in periferia, nella città in cui vivevo. Il dialogo che
ho instaurato con alcune persone che vi abitano mi ha portato ad analizzare le
loro aspettative nei confronti di un evento traumatico, frutto della necessità
di recupero urbanistico. Ho
utilizzato una struttura di pannelli che solitamente vengono impiegati nelle
cucine economiche, su cui ho collocato diversi oggetti, come fossero piccoli
scheletri di un arredamento casalingo trasformati in carovana. Sono resti
fisici di rapporti e scambi avvenuti tra me e queste persone.
Usi molti materiali, ma il risultato confluisce
verso la scultura, naturalmente intesa in senso allargato. Cosa significa oggi
la scultura per te? Ti definiresti scultore?
No, non mi
definirei scultore, anche se considero vere e proprie sculture i lavori che
produco. La scultura è strettamente legata alla necessità di rapportarsi
fisicamente con il lavoro. Questo per me è molto importante.
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*articolo pubblicato su Exibart.onpaper
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