Che
tipo di musica ascolti e quali sono gli autori che preferisci?
Ascolto
di tutto per distrarmi e divertirmi, però sono particolarmente interessato alle
sperimentazioni musicali più radicali. In particolare, quei generi che
esplorano la potenzialità espressiva della materia sonora, come John Duncan
oppure Ryoji Ikeda. Inoltre, visto che mio fratello è iscritto a un master di
Musical Composition a Londra, ne sto approfittando per conoscere meglio le
ricerche sperimentali di Iannis Xenakis, Luigi Nono, Giacinto Scelsi e Helmut
Lachenmann.
Quali
sono le città in cui vorresti vivere o consiglieresti di visitare e perché?
Amo
molto le grandi città come Berlino, New York, oppure Londra dove la
contemporaneità pulsa con più intensità. Mi piacerebbe molto fare un’esperienza
in Cina. Tendo a non programmare il luogo in cui voglio vivere perché
preferisco vedere dove mi porteranno le circostanze. Percepisco ogni città come
un contenitore di persone, atmosfere e narrative che s’intrecciano a creare un
luogo stratificato e difficile, se non impossibile da definire. Ci sono
moltissimi modi di vivere una stessa città, a seconda di chi conosci, di che
luoghi frequenti e in che luogo vivi.
I
luoghi che ti hanno particolarmente affascinato?
Il
luoghi in cui mi portano lo opere di Gino De Dominicis, Carmelo Bene, Bob
Dylan, Glenn Gould, Stanley Kubrick, Fernando Pessoa, Carlo Scarpa, Iannis
Xenakis, Luigi Nono, Raphael Miguel Soto, Jean Cocteau, Gabriel Orozco, Ettore
Sottsass, Giò Ponti, Bas Jan Ader…
Quali sono gli artisti del
passato di cui nutri particolare interesse?
Molti,
moltissimi. Mi focalizzo man mano che sviluppo la mia ricerca su artisti che
sento affini. Negli ultimi quattro anni mi sono focalizzato su Gino De
Dominicis. Direi quasi un’ossessione. Di quest’artista m’interessa in
particolar modo il suo posizionamento rispetto alla storia e al sistema
dell’arte. Penso che De Dominicis sia stata una sorta di eccezione, che con il
proprio lavoro abbia saputo andare oltre all’impasse postmoderna. Mi relaziono
al suo pensiero come se fosse mio contemporaneo, molto più profondamente di
quanto mi relazioni con l’arte “contemporanea.
Poi ci
sono molti altri “artisti” che mi affascinano molto anche al di fuori
dal mondo delle arti visive. Alla parola artista, che non designa nulla se non
un’occupazione, preferisco la parola poeta, che designa invece qualcuno che con
la propria opera sa evocare una frequenza mentale che prima non c’era. Trovo
molto affascinante l’opera di Carmelo Bene, specialmente il modo in cui ha
utilizzato il linguaggio televisivo. Amo molto anche l’opera di Bob Dylan
(film, interviste, libri, oltre ovviamente alla discografia considerata in
tutta la sua estensione e non solo per gli anni ’60), il cui comportamentismo è
del tutto ascrivibile alle logiche dell’arte visiva.
E i
giovani artisti a cui ti senti vicino, artisticamente parlando?
Mi piace molto il lavoro di Pietro
Roccasalva, Francesco Gennari e Roberto Cuoghi, Jorge Peris, Gregor Schneider,
Andro Wekua e, per certi aspetti, il lavoro di Loris Gréaud.
Quali
sono le mostre che hai visitato che, nel tuo percorso, ti hanno particolarmente
colpito?
In
questi anni ho visto molte mostre che mi hanno formato. Ricordo la
retrospettiva di Yves Klein al Pompidou, Raw Material di Bruce Nauman alla Tate, Artempo al Palazzo Fortuny, oppure sempre
a Venezia, la mostra sul rapporto tra Beuys/Barney che mi è sembrata molto ben
curata. Recentemente ho apprezzato molto una mostra al KW di Berlino intitolata
Political/Minimal,
da cui ho tratto molti spunti interessanti. E poi moltissime opere viste in
collezioni e musei vari che mi hanno colpito singolarmente. Mi piace molto
l’idea di andare in un posto per vedere anche una sola opera. Come quando un
pomeriggio ho preso la macchina da Vicenza fino ad Ancona per andare a vedere Calamita
Cosmica di De
Dominicis. È un tipo di esperienza più reale che entrare in un “luogo
espositivo”.
Hai trascorso un periodo negli
Stati Uniti, un altro in Francia. Che formazione hai?
Ho una
formazione abbastanza canonica. Liceo artistico/scientifico a Vicenza, Accademia
di Brera, un anno a Ucla durante il quale ho anche seguito tre intensissimi
mesi alla Msa^ di Piero Golia, poi altri sei mesi per un erasmus all’Ensba di
Parigi. Sono stati anni molto formativi in cui ho avuto la possibilità di
confrontarmi e mostrare il lavoro ad artisti importanti che mi hanno aiutato a
migliorarlo e a considerarlo sotto molti punti di vista. Ora continuo a
studiare molto anche se in maniera volontariamente asistematica.
Hai
fatto diversi workshop con diversi artisti. Sono formativi?
Dipende
molto dall’alchimia che si crea tra i partecipanti e dal talento pedagogico
dell’artista invitato. Sotto questo punto di vista il workshop con Jorge Peris
alla Fondazione Spinola, da cui poi è nata una bella amicizia, è stato il
migliore a cui abbia mai partecipato. Sono state tre settimane intensissime in
cui alla fine ognuno dei partecipanti si era rimesso in discussione proprio a
livello personale. Credo sia questo il senso di un workshop riuscito. Altre
volte le dinamiche tra i partecipanti sono state più meccaniche e forzate.
Quanto la preparazione
accademica invece influenza il percorso artistico?
Nel mio
caso moltissimo. Sarò l’ennesimo ex studente di Garutti a cantarne le lodi,
però effettivamente il suo corso è fuori dalla media. Alberto si pone come un
vero e proprio maestro di vita che critica duramente sempre e solo il lavoro e
mai la persona. Anche rispetto alle esperienze che ho avuto a LA e Parigi devo
dire che il suo approccio all’insegnamento è unico e particolarmente efficace.
Non sono molti gli insegnanti che hanno la voglia e il tempo di portare gli
studenti a una sana crisi come sa fare lui.
In
che cosa consiste il tuo lavoro?
Cerco
di fare un lavoro che sia strettamente connesso agli interrogativi che nascono
spontanei, dalla semplice esperienza di esistere. Esperienza assolutamente
assurda, di cui generalmente ci si abitua, e che di tanto in tanto torna a
porsi come un interrogativo vertiginoso. Cerco di evocare questa vertigine, un
senso di apertura che affascina e insieme spaventa, ma nel quale vedo lo spazio
necessario per “pensare altrimenti”.
M’interessa
guardare la contemporaneità filtrandola da una prospettiva in qualche modo
filosofica e metafisica. Un’attitudine stupita e meravigliata per ciò che
solitamente è dato per scontato. Giorgio de Chirico parla nei suoi scritti di
come l’esperienza metafisica consista nel guardare le cose come se si fosse
privi di memoria. Tutto allora apparirebbe come sospeso ed estraneo. Come
distante. Da qui la mia preferenza per una formalizzazione asciutta e minimale,
di per sé meno legata alla contingenza e più vicino a evocare un senso di
universalità.
Anche
per quanto riguarda i media, tendo a pensarli in relazione all’intento che mi
propongo. Sono pronto a cambiare medium e materiale se questo è ciò che
richiede la logica interna al lavoro, in modo da far aderire forma e contenuto
il più possibile… “Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”… Oppure cercare di rendere
l’effetto di questa presenza.
una mostra a Londra nel 2007 hai fatto un intervento della durata di 83 ore. In
quel lasso di tempo ti è successo di tutto. Mi hai detto però che i tuoi
spostamenti non sono stati documentati visivamente, se non attraverso le tracce
dei tuoi passaggi come i biglietti aerei. Ti va di raccontarci alcuni aneddoti
di quell’esperienza?
È stata una vera e propria
sospensione in cui per tre giorni non ho fatto altro che presenziare al mondo e
al suo manifestarsi, impeccabilmente fuor di contesto. 83 ore circa in cui mi
sono perso in una sorta di “deriva inattuale”, scivolando tra
narrative, luoghi e persone. Continui slittamenti di identità e cortocircuiti
si succedevano nel mio vagabondare tra stazioni, caffè, aeroporti e luoghi
pubblici, dovuti al mio aspetto elegante, a seconda dell’orario, del contesto e
della conseguente pertinenza a esso.
Per esempio negli aeroporti tra
Londra, Milano e Amsterdam mi hanno trattato come un banker, una volta facendomi
saltare la fila, oppure a un opening a Milano mi hanno chiesto il comunicato
stampa come se lavorassi alla galleria e in un locale per una serie di
circostanze che qui non sto a spiegare pensavano fossi un inviato del programma
Le iene e
volevano sapere dov’erano le telecamere.
Che
responsabilità ha oggi un artista?
Semplicemente quella di produrre
un lavoro intellettualmente onesto e della massima qualità possibile, in modo
da sviluppare una sua singolarità. Questo costituisce una forma di resistenza
rispetto all’appiattimento e all’omologazione culturale e conferisce valore
alla ricchezza potenziale in cui consiste la realtà. In questo senso non si
tratta di un approccio contestatario e rivoluzionario, ma di un approccio
sovversivo proprio per il suo essere propositivo.
A volte, quando mi ripropongo la
domanda sul senso del fare arte, mi basta provare a fare un esperimento in
negativo per far sì che mi si renda di nuovo palese il senso che l’arte ha per
l’uomo. Prova a immaginarti un mondo senza arte, film, libri, stili architettonici,
decorazioni, musica ecc. L’arte trasforma il sopravvivere in abitare.
Ultimamente trascorri gran
parte del tuo tempo a Venezia, dove hai un atelier della Fondazione Bevilacqua
La Masa. Mi racconti una tua giornata?
Approfitto
della calma di Venezia per concentrarmi sul mio lavoro e sui suoi presupposti
concettuali. Dunque trascorro delle giornate serene e regolari portando avanti
i miei studi. Per questo tendo a lavorare più di notte che di giorno.
L’atemporalità e la bellezza di Venezia sotto questo aspetto sono molto
stimolanti. Inoltre seguo qualche corso allo Iuav, quando c’è qualche
professore che m’interessa. Come negli ultimi tre mesi, in cui ho seguito uno
stupendo corso di Giorgio Agamben sul tema della Voce.
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Giulio
Frigo a Ca’ Pesaro
talent hunter è una rubrica diretta
da daniele perra
*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 59. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]
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In giulio frigo vedo una tensione a lavorare sul linguaggio e sul ruolo. Anche se siamo sempre nello steccato/archetipo rassicurante dell'arte contemporanea. Però c'è una tensione. C'è anche un suo essere furbo e una capacità critica di sostenere appetibilmente il suo lavoro. Non credo molto in questa freschezza e mobilità da distributore automatico. Frigo è evidentemente iscritto alla nonni-genitori foundation. E' tutto troppo facile e minimal. Una freschezza da frigo (nel senso dell'elettrodomestico, senza doppo sensi). Una freschezza ruffiana e rassicurante. Come a dire: se mi segui diventerai come me. Questo stucca. Si vende, ma stucca. Cioè si vende, ma mi vede perplesso nel lungo periodo.
Frigidaire, ovvero dalla rivista all'arrivista. Un discorso tritato e ritrattato da chi a tratti non tiene presente del punto e virgola. Tratta di punti esclamativi, poche domande, merita un punto a capo.
Almeno una mente locale, mal che vada un locale e basta niente, veramente senza mentire.
ahahahahahahha