Che libri hai letto di recente?
È da un po’ di tempo che m’interesso a libri di letteratura medica. In
particolare Ho scambiato mia moglie per un cappello, Un antropologo su Marte, Musicofilia, Vedere voci e altri di Oliver Sachs. Mi sono
soffermato sulle Sindromi di Asperger e Tourette. Mi affascinano e spaventano
la fragilità del cervello umano e la perdita di controllo.
Che musica ascolti?
La cosa che faccio in assoluto di più è ascoltare musica, impazzisco
per il rumore e il free jazz di Ornette Coleman. Conlon Nancarrow è uno dei
musicisti che preferisco, adoro la sua complessità ritmica e il senso ludico
delle sue composizioni (studi per piano meccanico). Sono letteralmente
innamorato di Charles Mingus, Eric Dolphy, Harry
Partch e dei primi due album dei Pere Ubu.
Città che consiglieresti di visitare e perché.
Sono stato di recente a Caracas. È una città bellissima e piena di
contraddizioni. Molto caotica e vitale, anarchia pura. Tra le cose che colpisce
è la nitidezza della luce.
I luoghi che ti hanno particolarmente affascinato.
Una volta sono stato in un buco.
Quali sono le mostre visitate che hanno lasciato un segno?
Da ragazzino ricordo che mi aveva colpito tantissimo una grande retrospettiva
su Miró che avevo visto a Roma,
una mostra potentissima con un sacco di lavori. Poi da adolescente la Biennale
di Venezia di Szeemann. Da un po’ di tempo sono più interessato ai concerti.
L’ultimo è stato quello degli Zu a Milano.
De Kooning, Ornette Coleman, Charles Mingus, Eric Dolphy,
Conlon Nancarrow, Michael Jackson, Joseph Cornell, Henry Darger, le bolle di
Roland Flexner, Gabriel Orozco, Matt Savage, Lightning Bolt e Merzbow.
E i giovani a cui ti senti vicino, artisticamente parlando?
Mi sento molto vicino ad artisti con cui sto collaborando e con i
quali ho condiviso progetti e mostre. Penso a Alek O., Mauro Vignando, Matteo
Rubbi, Santo Tolone, Alberto Pesavento, Giovanni Giaretta e Vincenzo Latronico.
Che formazione hai?
Ho frequentato per anni le accademie italiane senza trarne troppo
vantaggio. Credo che il livello generale sia parecchio basso. Collaboro dal
2006 con Isola Art Center a Milano, ed è stata un’esperienza fantastica, ho
avuto la fortuna di conoscere molti artisti, di lavorare a parecchi
allestimenti e farmi le ossa.
Hai lavorato come magazziniere alla Galleria Massimo De Carlo.
Avrai quindi avuto occasione di vedere molti artisti in fase di allestimento delle
mostre e della produzione dei loro lavori. Quanto è stata importante
quest’esperienza per il tuo percorso?
Molto. Oltre agli incontri – gli artisti, una squadra affiata e
Manfred – la cosa più importante per me è stato il magazzino di De Carlo. È stato
una miniera d’oro! Una parte dei miei nuovi lavori sono nati lì dentro. Ho
continuato per un anno la raccolta di spazzatura di “lusso” (detriti d’artista)
usandoli poi per alcune installazioni e sculture, ho scattato una serie di
fotografie (Patjupa) a sculture che facevo con i vari materiali a disposizione nel
magazzino, sculture momentanee, che disfacevo non appena sentivo qualcuno
aggirarsi nei dintorni. È stato molto divertente lavorarci per un anno.
Dal 2007 collabori con l’artista argentino Tomás Saraceno al
progetto itinerante Museo Aerosolar. Di cosa si tratta?
È una nuova specie di museo volante, un’opera collettiva iniziata da
Tomás, concepita in dialogo e in costante cooperazione con Isola Art Center. Museo
Aerosolar è un
pallone a energia solare realizzato con sacchetti di plastica riutilizzati;
cresce di volta in volta, a seconda delle persone coinvolte nella realizzazione
e dei nuovi viaggi nei più diversi paesi. È una via di mezzo tra azione
collettiva spontanea, scienza, arte e tecnologia fai-da-te, è un viaggio avanti
e indietro nel tempo, sfidando le leggi del volo e dell’aria per ritornare
sulla terra.
Come descriveresti la tua ricerca?
Sto cercando di spingere il mio lavoro ai limiti. A volte vorrei
esplodere. Sono interessato a ciò che mi sfugge dal controllo. Scatenare e
creare situazioni che abbiano anche una certa indipendenza da me. Nell’ultima
installazione da Room Galleria ho cosparso il pavimento di resti di
performance, piccoli macchinari, scatolame, cotone idrofilo, piante finte,
frammenti di oggetti, con l’intento di creare una sorta di “scultura”
in movimento in constante trasformazione. A volte penso che l’artista soffra di
bulimia: mangia, mangia, mangia, per poi vomitare. È una necessità compulsiva
quasi nevrotica, poco governabile. C’è spesso molta violenza ai limiti del
dolore fisico. Ma c’è anche una parte che cerca l’ordine: una parte minimalista
e meticolosa; è quella parte che si occupa di raccogliere i resti per
catalogarli e ordinarli. È quella parte senza la quale non sarebbe possibile
emettere alcun senso.
C’è nel tuo lavoro una forte componente performativa/ludica, anche
nella fase stessa di realizzazione. Penso all’uso del ventilatore o della
coccinella per massaggi cinesi per disegnare. Cosa ti interessa di
quest’aspetto?
M’interessa il fattore “perdita di controllo”, lasciare che qualcosa
nasca “spontaneamente”. Spingere un grosso masso giù dal burrone e vedere cosa
succede. La performatività per me ha questa funzione, diventare “oggetto” in
balia del caos. Nel caso del ventilatore e della coccinella a spingermi è stata
la necessità di inventare dei segni. Da tempo stavo cercando dei nuovi segni,
quelli a cui lavoravo non mi soddisfacevano affatto. Il ventilatore e la
coccinella sono nati come espedienti per fare quei segni, per scatenare quella
componente di casualità impossibile altrimenti.
Anche il sonoro ha un forte peso. Dal 2005 lavori a composizioni
con il progetto solista Kert is Lost e dal 2007 al 2008 hai collaborato come
performer e musicista al progetto Above the Tree. Anche per la tua prima mostra
personale da Room Galleria a Milano, non appena entrava un visitatore nello
spazio, ti divertivi ad alzare il volume del sonoro fino a farlo diventare
assordante. Che rapporto hai con il suono nei tuoi lavori?
Il suono è quasi sempre presente nel mio lavoro, è una cosa a qui
penso costantemente. Nell’installazione che ho realizzato per la mostra Il
raccolto d’autunno è stato abbondante, il suono che l’ammasso di cose produceva schiantandosi
al suolo, un boato indistinto, era parte integrante dell’opera. Cerco sempre
d’inventare modi di produrre suoni. Anche nei disegni, la vela di plastica
attaccata al ventilatore svolazzando produce un suono ipnotizzante. Penso al
suono come a una massa informe che si muove variando velocità e colore fino a
dissolversi: m’interessa la sua spazialità.
talent hunter è una rubrica diretta da daniele perra
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n.
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ecco le migliori propaggini di questa fase, della postproduzione. Almeno c'e' una visione sincera e una tensione..per quanto imbrigliata nei soliti codici triti e ritriti. Affannati e stanchi. Si', stai vicino a de carlo, santo tolone e alek o, pippi ri, tappa ra, e sara'meglio. perche' all'interno di questa logica, solo le relazioni possono fare quella minima differenza fine a se stessa.