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talent hunter Margherita Moscardini
parola d'artista
Schiva, analitica, con un'inconsapevole matrice logico-matematica, Moscardini scava nelle memorie dei luoghi, da un punto di vista architettonico e storico, per rappresentare l'invisibile. I suoi lavori sono cerebrali, quasi sempre site specific, apparentemente ostili. Non urlano, ma lasciano spesso una traccia indelebile...
L’opera di Fernando Pessoa, pensando a quella di Álvaro Siza; intanto, Qoèlet.
Che musica ascolti?
Non ascolto musica.
Quali sono le cinque città che consiglieresti di visitare e perché?
Chartres per essere il 15 agosto al centro della sua cattedrale; Bangkok, per rimanere bloccati nel traffico in auto per un tempo indeterminato, e vedere la città che scorre intorno; Torino, perché è una città che non urla (come il lavoro di certi). Due punti di vista: la pista di collaudo del Lingotto e la collina di Superga. Oporto, per il Serralves di Siza: un museo che non ospita ma è una mostra di pittura – e di quelle belle. Palermo, per vedere il ficus magnolioides nell’orto botanico.
I luoghi che ti hanno particolarmente affascinato?
Sono molti, ti racconto quelli verso i quali mi sento in debito. Il tratto dell’Arno costeggiato dalla linea ferroviaria Empoli-Firenze (lì c’è tutto Leonardo). Lungo la via Aurelia, passato Donoratico (Livorno), ci sono delle serre inutilizzate. È rimasta parte della struttura, comprese le eliche per la ventilazione. Una è parzialmente smontata, ma la più grande è ancora perfetta. All’inizio, ventisette anni fa, lì si coltivavano le rose. Ora è protetta da erbacce. L’ex-ospedale neuro-psichiatrico di Volterra. I padiglioni abbandonati stanno crollando. Lungo tutto il muro esterno di un padiglione un ospite incise il suo diario. La narrazione, per segni cuneiformi, parole e disegni, segue tutto il perimetro senza interrompersi: prosegue delineando le sagome di chi seduto immobile sulla panchina, non avrebbe interrotto il proprio pensiero perché NOF potesse scrivere il suo.
Quali sono gli artisti del passato di cui nutri interesse?
Accidenti. Ti dico Gordon Matta-Clark per tutta la sua opera, soprattutto quella che non ha fatto in tempo a realizzare, e Gino De Dominicis per il genio e la capacità di parlare per vuoti e assenze.
E i giovani artisti a cui ti senti particolarmente vicino, artisticamente parlando?
Elena Bajo e Lara Almarcegui.
Quali sono le mostre che hai visitato che ti hanno particolarmente colpito?
In assoluto sono state la collezione Panza di Biumo a Varese, il parco della Fattoria di Celle (collezione Gori) vicino Pistoia e Euroflora 2007 a Genova. Di recente Cy Twombly alla Tate di Londra e Tino Sehgal alla Villa Reale di Milano.
Passiamo ora al tuo lavoro. Che formazione hai?
Un grande nonno pittore, tante celle frigo piene di fiori, ho studiato pittura all’istituto d’arte di Pisa, e ancora pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ho avuto la fortuna di frequentare dei bei workshop e lo studio di Massimo Bartolini.
Quanto la preparazione accademica ha influenzato il tuo percorso artistico?
Due eventi sono stati fondamentali: il corso di anatomia del segno di Severino Storti-Gajani e l’incontro con Roberto Daolio, con il quale ho capito cosa fosse necessario. Per il resto ho vissuto l’accademia un po’ di sfuggita.
Vedendo i tuoi progetti ho colto una sottesa matrice logico-matematica e un’attenzione incredibile alle fasi processuali. Sembra che tu sia più interessata alla fase progettuale che al risultato finale. È così?
Non proprio, o almeno è difficile separare l’esperienza delle fasi costruttive del lavoro dalla forma che ne esce. Forse io cerco di assomigliare di più al processo perché il risultato somigli al luogo. Diciamo che cerco di esserci il meno possibile. Tutto quello che sta in mezzo tra la visione iniziale e il risultato: il calcolo, la costruzione, le relazioni, le suggestioni, viene assorbito in una forma che potrebbe esserci sempre stata. Lì. Mi è capitato di essere talmente entusiasta del processo che alla fine il risultato mi è parso un dettaglio. Presuntuosa: c’è stato bisogno di una didascalia. Quando un lavoro è riuscito la complessità e il valore del processo rimangono inscritti. Dopodiché ogni intervento vive, suo malgrado e per fortuna, delle contingenze, che possono determinare uno scarto tra il processo e la forma raggiunta. Ma potrebbero essere la testimonianza di un ulteriore grado di appartenenza del lavoro al luogo e alla circostanza (e viceversa).
Lavori prevalentemente a interventi site specific. Perché?
Perché penso che un intervento non possa prescindere dallo spazio in cui è inserito, dai limiti e dalle contingenze che quel luogo presenta, dalle persone che lo vedranno più spesso, dall’architettura che lo ospita, dalla luce che lo mostra, dalla morfologia del territorio che lo circonda.
Qual è il modo migliore per descrivere la tua ricerca?
Alla fine di una descrizione la Woolf dice: è “un sollievo così grande, poter indicare una cosa. E non parlare”.
Il disegno sembra essere tra i tuoi media privilegiati nella costruzione di un lavoro. Oggi c’è un grande ritorno al disegno. Stiamo forse tornando a una fase in cui prevale il “saper fare”?
Può essere, ma è tutta colpa della recessione. Le dichiarazioni di completa incompetenza tecnica mi innervosiscono. Penso che per delegare bene occorra una buona conoscenza di quello che si chiede. E conoscere per un artista significa anche saper fare. Non c’è giustizia o errore nello scegliere di fare o meno: c’è forse solo la possibilità di cogliere o perdere grandi opportunità. Di certo coloro che delegano totalmente le loro realizzazioni si perdono almeno tanti regali (anche di senso) che le stesse tecniche sanno offrire.
Che responsabilità ha oggi un artista?
Tutta la responsabilità che ha avuto sempre, nei confronti di tutta l’arte e di tutti i suoi interlocutori. Oggi, rispetto al passato, dovremmo sentirci più responsabili di quello che non si fa.
Hai frequentato il Corso della Fondazione Ratti? Cosa porti con te di quell’esperienza?
Il desiderio di frequentarne altri. La curiosa sensazione che mancasse qualcuno. La conferma del mio interesse per una certa architettura e la consapevolezza di cosa proprio non so fare: un lavoro in due settimane.
Progetti futuri?
Sto lavorando a un progetto con due architetti speciali e ho in testa il cantiere di una cava di marmo.
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talent hunter è una rubrica diretta da daniele perra
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 56. Te l’eri perso? Abbonati!
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