Categorie: parola d'artista

talent hunter | Tomaso De Luca

di - 8 Giugno 2010

Che libri hai letto di recente?

Ho appena finito La testa senza il corpo di Julia Kristeva, un saggio sulle
decollazioni nell’arte, e Ladri nella notte
di Arthur Koestler, un romanzo
sulle colonie ebraiche in Palestina nel 1937-39. Ora sto leggendo Queer
Space
di Aaron
Betsky.

Che musica ascolti?

La musica triste.

Città che consiglieresti di visitare e perché.

Sicuramente Roma. È una città da passare al microscopio e da provare a
non capire. Poi San Sebastián,
nei Paesi Baschi. È una cittadina piccola e senza grandi attrattive, ma ricordo
un pulmino color argento portare me, mio padre e mio fratello fino in città
durante una tempesta torrenziale… Mi è sembrato il posto più bello del mondo.

I luoghi che ti hanno particolarmente affascinato.

Non dimenticherò mai la costa dei Paesi Bassi, dove oltre il muro
d’erba c’è un mare piatto, stagnante, pieno di alghe. Non mi era mai capitato
di dover scalare una barriera e vedere il mare dall’altra parte. È stata
un’esperienza fisica, di una malinconia infinita.


Quali sono le mostre visitate che ti hanno lasciato un segno?

Jackson Pollock et le chamanisme alla Pinacothèque de Paris e Picasso et les maîtres al Grand Palais, nel 2009. Mi
hanno formato moltissimo. Più di recente, il padiglione dei Paesi Nordici
all’ultima Biennale di Venezia, curato da Elmgreen & Dragset, e la
retrospettiva su Gianni Colombo al Castello di Rivoli.

Quali sono gli artisti del passato per i quali nutri interesse?

Martin Kippenberger, Anthony Caro, Robert Morris, David
Smith, Patrick Angus, Gianni Colombo, Jean-Auguste-Dominique Ingres, John
Heartfield, David Hockney, David Wojnarowicz.
M’impongo una top ten
e finisco qui.

E i giovani a cui ti senti vicino, artisticamente parlando?

Jean Gabriel Périot, Cristian Chironi, Moira Ricci, Giulio
Squillacciotti, Marco Bongiorni e Dario Pecoraro. Mi piacciono gli artisti che
creano un forte rapporto con le immagini, che hanno bisogno di assumersene la
responsabilità.


Che formazione hai?

Ho fatto, a fatica, il liceo classico. Ora sto per finire il triennio
di Pittura e Arti Visive alla NABA di Milano.

Passiamo al tuo lavoro. Hai scritto: “Tratto
percorsi indipendenti, slegati tra loro, come i palazzi di una città, contigui
ma differenti
”. Quali sono questi percorsi?

Voglio che il mio lavoro possa migrare facilmente nelle zone che mi
interessano: fare percorsi significa per me cambiare non solo luogo ma anche
passo, ritmo, orientamento; sottopormi quasi a delle prove di forza. Cerco di
volare, di abbattere palazzi, di interrogare la storia. Sono tutte pratiche
molto diverse tra loro, ma che alla fine partono da un movimento che mi piace
chiamare “anti-viaggio”.

La pittura intesa in senso tradizionale sembra starti
un po’ stretta. Da cosa nasce l’esigenza di fuoriuscire dalla tela?

Il bianco della tela è una sfida che cerco di fronteggiare, mi
spaventa ma allo stesso tempo mi permette di trovare delle ecphrasis
interessanti. Trovo che la
pittura e il disegno abbiano una forza incredibile, tagliente, profondamente
biologica. Applicare il segno a qualcosa e non crearlo dal niente è
un’operazione cannibale. Penso alla pittura come metodo per fare esperienza,
per lasciar pensare le mani. Uscire dalla tela non significa entrare nel reale,
ma estendere il segno.


Come descriveresti la tua ricerca?

Quello che sto cercando di fare è probabilmente una ri-analisi della
“grammatica” culturale che ci contraddistingue, dell’utilizzo del corpo, della
storia, del paesaggio e dello spazio. Per fare questo ho bisogno di detournare
le immagini, inserirmi in un
linguaggio e sovrapporre l’esperienza alla cultura: rendere un manuale di
aeronautica del periodo della Seconda guerra mondiale un vademecum sul volo
umano, usare un corpo molle e senza ossa, provare a cambiare la visione
dell’architettura e della pittura con una prospettiva orizzontale. Ecco, forse
è proprio questo “sguardo storto” che m’interessa, l’abbandono del sistema di
pensiero verticale, ragionato, che assorbe e inserisce tutto nel sistema di crescita
della specie. Mi piacciono di più l’orizzontalità, la biodiversità, l’idea che
possiamo non evolverci ma sparpagliarci, che possiamo non integrare o
integrarci; mi piace l’anti-logicità del pensiero, le crepe che lo spazio e il
linguaggio lasciano inesplorate.

Ricami e disegni su testi storici come il Breviario
d’Estetica
di Benedetto Croce oppure
intervieni con tempera e grafite, collage e inchiostro su documenti trovati.
Che
rapporto hai con l’oggetto-libro e con la storia?

Il libro è un oggetto eccezionale. Ci ruba tempo, ci obbliga
volentieri a leggerlo e usarlo. Mi piace moltissimo questa dimensione
temporale, questa capacità attrattiva, oltre, ovviamente, alla sua funzione di storytelling
. Intervenire graficamente su una
storia significa crearne un’alternativa, come una diversa versione di un mito.
L’uso che faccio dei libri è soprattutto questo: una sovrapposizione di storie
alternative a quella che in origine c’è già. Il rapporto con la Storia con la S
maiuscola è in qualche modo molto simile. M’interessa quella italiana,
soprattutto i lasciti e le propaggini che ritroviamo nel presente e che
possiamo vedere o sentire. Non voglio parlare della memoria, piuttosto di un
modo di narrare diverso, obliquo.

Hai sovvertito la verticalità delle costruzioni fasciste con
l’installazione Horizontal Fascism
. Vedi l’architettura come rappresentazione del
potere?

Assolutamente. Yervant Gianikian
a una conferenza ha detto che l’estetica è etica. Questo vale anche (o
soprattutto) per l’architettura. Costruire significa cambiare lo spazio e la
percezione di esso, dire qualcosa. Lo spazio italiano del Ventennio è molto
differente da quello ieratico della Germania nazista, tuttavia l’architettura è
un sistema estetico di propaganda molto più forte di qualsiasi parola detta. Lo
spazio è sempre politico.


Che rapporto hai con la politica?

Animato e molto affezionato. Vivere una vita politica (e non
ideologica) è fondamentale, soprattutto perché altrimenti non si è che eremiti.
Essere politici è un atto imprescindibile, è tutt’uno con l’essere. Fare arte è
fare politica, la migliore, quella che (tendenzialmente) è slegata dal potere.

E con il corpo?

Cerco di usare anche il corpo in modo biopolitico. Ma per il resto…
un disastro.

Hai appena vinto una residenza presso il Pastificio Cerere di Roma
con il concorso 6Artista. Cosa ti aspetti da quest’esperienza?

Trovo importante fare una residenza nel proprio Paese, assorbire e
analizzare appieno l’Italia, la sua situazione così unica e interessante.
Confrontarmi con questa realtà è un grande onore. Spero che questa esperienza
produca una crisi, metta in discussione me e il mio lavoro.

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Il
concorso 6Artista

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