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06
giugno 2012
TALENT ZOOM Filippo Berta
parola d'artista
Bergamasco, classe 1977. La sua ricerca evita lavori ermetici e bisognosi di lunghi testi esplicativi, cercando invece di immedesimarsi nel pubblico in modo da arrivare anche allo spettatore più generico…
Dove vorresti essere nato o dove vorresti vivere?
«La domanda sottintende il desiderio di opporsi a una condizione imposta dal luogo di nascita, che uniforma l’individuo alle caratteristiche di una società. In tal senso, hai colto una questione fondamentale nella mia ricerca, vale a dire, l’analisi delle tensioni prodotte dal conflitto tra l’identità individuale e collettiva. Ribaltando la riflessione in chiave personale, anch’io sono immerso in una collettività e quindi vivo questo stato di conflitto interiore. Di conseguenza, non credo ci sia una risposta risolutiva, perché le peculiarità individuali discordano con qualsiasi forma di società, già dalla famiglia, e questo è molto interessante».
Descrivi una delle prime opere d’arte che ricordi di aver visto.
«Vorrei rispondere alla domanda evitando la descrizione di un mio approccio a un’opera d’arte istituzionalizzata, ma citando un’esperienza remota ma ben radicata nella mia memoria. Obbligato per tradizione a frequentare le funzioni religiose cattoliche, rimasi colpito dalla forza comunicativa delle tele e delle sculture sacre. In me è indelebile l’immagine di un gruppo di persone in fila durante il rito pasquale, in attesa di accarezzare una scultura di marmo rappresentante il Cristo Defunto, vale a dire un mito inarrivabile, che in quel momento superava l’unicità di qualsiasi capolavoro esposto in un Museo».
Una mostra che non dimenticherai mai.
«Cito la mostra Born to be burnt dell’artista rumeno Mircea Cantor realizzata presso la GAMeC di Bergamo nel 2006. Di quella mostra non preservo in me uno stupore reverenziale, ma qualcosa di meglio: capii quanto si può essere incisivi con un piccolo gesto. A riguardo mi riferisco all’opera inedita che diede il titolo alla mostra. L’artista dispose tanti bastoncini di incenso negli spazi del Museo, e una volta accesi, questi bruciavano lentamente in modo da manifestare la loro presenza diffondendo ovunque un odore acre, percepibile addirittura nel cortile esterno».
A cosa devi la tua vocazione artistica?
«Sono sempre stato attratto dai conflitti e dalle tensioni insite nell’individuo o in una società, e mi viene spontaneo parlarne facendo uso delle forme delle arti visive. Intendo l’estetica come un mezzo e non come un fine, con cui analizzare la forma imperfetta dell’uomo».
Cerca di sintetizzare la tua prassi lavorativa.
«Evito lavori ermetici e bisognosi di lunghi testi esplicativi, scartando senza ripensamenti le idee che celano tali caratteristiche. Cerco di immedesimarmi nel pubblico, in modo da arrivare anche allo spettatore più generico. Poi, quando sono certo dell’idea, stendo il progetto nei minimi dettagli».
Nella tua ricerca c’è un evidente dualismo. Dovendo scegliere: coniunctio oppositorum o complexio oppositorum?
«È impossibile fare una scelta, perché tutto gira attorno al costante tentativo di una comunione degli opposti che paradossalmente produce condizioni dualistiche».
Raccontami come nasce l’esigenza di eventi performativi collettivi.
«Sto sperimentando come il singolo individuo, già con la sua presenza fisica, possa essere portatore di un significato. Coinvolgendo la persona a eseguire gesti semplici, che non richiedono abilità interpretative, egli può conferire all’azione un senso esclusivo e del tutto nuovo. Allargando poi il campo visivo dal singolo soggetto al collettivo, ne consegue la realizzazione di performance di gruppo che sono un insieme di micro-narrazioni in cui si accentuano le minime differenze».
Commenta l’opera che hai scelto a corredo di questa intervista.
«L’opera è una performance collettiva intitolata Allumettes realizzata al Museo Madre di Napoli. Delle persone accendono un fiammifero dopo l’altro per rendere visibile il quadrato creato dall’unione dei loro corpi. Questo gesto ostinato si dimostra fallimentare quando le prime persone, avendo finito i fiammiferi, abbandonano il gruppo e decretano un lento processo di dissolvimento del quadrato perfetto. Il fievole bagliore dei fiammiferi cela in sé la fragilità di una perfezione solo momentanea».
Progetti nel cassetto?
«Ho chiuso un progetto che mira a uniformare le voci femminili e maschili di un gruppo di persone, usufruendo del naturale effetto prodotto dall’elio sulle corde vocali. Tra i prossimi impegni posso citare: la residenza alla Fondazione Ratti di Como; III Moscow Biennale for Young Art; una collettiva al Centre of Contemporary Art in Thessaloniki; una personale alla Villa Pacchiani, Santa Croce, Pisa».
di alberto zanchetta
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 79. Te l’eri perso? Abbonati!