Persona amabile, Paolo Fabbri, forse grazie anche al suo essere romagnolo, accogliente come si usa essere nella sua terra, e chiacchierone, grande e piacevolissimo chiacchierone! come sanno essere i romagnoli. Persona amabile ancor prima o, forse, insieme all’essere un grande intellettuale, in grado di unire e “manipolare” – ma in senso buono, come diceva stamane l’amico Pino Donghi che lo conosceva bene – idee e temi diversissimi, di rintracciare connessioni nascoste, esplorandole per capirle anzitutto lui stesso e poi comunicarle agli altri. In questa capacità , appunto, somigliava molto a Remo Bodei, suo amico e collega. Bodei più logico e consequenziale, caratterizzato da un approccio al pensiero così preciso da essere quasi “chirurgico”, anche quando trattava temi sfuggenti e incandescenti come le passioni, e Paolo più visionario, grande affabulatore delle traiettorie inconsuete, marginali, impreviste del pensiero, grande narratore di scenari. E in questo senso somigliava molto anche a Umberto Eco, cui era stato legato da profonda amicizia e rapporto professionale. Ma non essendo stato affatto suo allievo, come qualcuno ha scritto, separandolo da Eco solo sette anni, anche se, in virtù della sua eterna giovinezza, sembravano molti di più.
E, come Umberto Eco, Paolo Fabbri si era occupato di semiotica, di modalità di pensiero e dei percorsi tortuosi e sorprendenti del linguaggio, de “l’impero dei segni” ma, mi viene da dire, a differenza di Eco, si era occupato anche di tanta arte, essendo anche amico di tanti artisti: Baruchello, Balestrini, Mattiacci, tra gli altri. L’ultimo suo libro, un malloppo di quasi 500 pagine, si intitola Vedere ad arte. Iconico e icastico (Mimesis, 2020), in cui interroga direttamente le opere dei grandi, tra gli altri: Kounellis, Baruchello, Adami, Pistoletto, Zorio, Bruce Nauman, Castellani, Cattelan, Bill Viola.
Paolo Fabbri: una certa modestia nel parlare
Dicevo stamane a Matteo Bergamini che sono stanca di scrivere sempre di morti. Provo a girare questa osservazione, dicendomi che ho avuto la fortuna di conoscere persone, chi piĂą chi meno, eccezionali: artisti, pensatori, curatori, collezionisti. Ciascuno a modo proprio, persone che, specie se conosciute da giovane, mi hanno insegnato qualcosa di prezioso. Ho appreso qualcosa da Paolo Fabbri? Difficile rispondere, ma mi piace pensare che, osservandolo parlare, ho imparato qualcosa che ammiravo molto in lui: una certa modestia proprio nel parlare, che significa riuscire a parlare con tutti e farsi capire.
Pensavo anche stamane a quanti di questi grandi se ne sono andati negli ultimi mesi, tra questo sciagurato 2020 e l’anno prima. Quanti. Mi sembra che se ne sia andata la parte migliore di una certa Italia, quella capace di pensare, appunto. Quella capace di schiuderti, parlando o insegnando (è stato a lungo il caso di Paolo Fabbri, amatissimo dai suoi allievi) mondi che altri non vedevano e che loro, miracolosamente, vedevano insieme a te, ma scoprendoli “in tempo reale”, definendone le coordinate mentre li osservavano, accanto a te.
Ecco, Paolo Fabbri era uno capace di “mettere il mondo al mondo”, capace di pensiero critico e visionario, quello di cui c’è tanto bisogno oggi e che, mi auguro – penso ci auguriamo tutti – almeno qualche suo allievo abbia imparato.
Ciao Paolo, mi dispiace tanto non averti salutato.
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