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Achille Lauro: un idolo al 70mo Festival di Sanremo
Personaggi
di Teresa Macrì
Viene da riflettere sulla visuality di questa 70ma edizione del Festival, illusionistica macchina di entertainment, conformata come un object trouvé mai rescritto, ma imperitura nella sua leggerezza pop-kitsch-trash e nella sua capacità di declinare quella popular culture da cui rifugge l’arte contemporanea, se non nelle velleità di Jeremy Deller e prima ancora di Mike Kelley e pochi altri.
Il suo stagnante format, consacrato alla retorica, ha trovato un imprevedibile punto di rottura nella sua up-line, con le epifaniche irruzioni di Achille Lauro e il suo lunare universo, precipitato come una meteorite sul palco dell’Ariston. Tali apparizioni, costruite su esecuzioni perfette, hanno scardinato l’ovvio e l’ottuso su cui è trincerato da sempre il Festival, autoaffermandosi, finalmente, come soggetto divisivo e non come oggetto di compiacenza. Piaccia o no, disturbi o meno, questa è la società dello spettacolo debordiana!
Chi è Achille Lauro
Per chi lo conosce, non è stata una novità la sua coraggiosa e sfidante performativity. Il ventinovenne musicista appare sulla scena sonora trap (in Achille Idol Immortale, soprattutto) poi trasformandola nella trap-carioca e sostando alle infrazioni punk – rock sperimentale di ora. Dalla periferia romana, vola in alto fino a fondare una sua etichetta indipendente, No Face, con cui esplode nel 2019, con la cover Rolls Royce. Come si evince nel docufilm, uscito l’anno scorso per Sky, Achille Lauro No Face diretto da Lauro stesso, nei 50’ in b/n di sequenze distrofiche l’artista ricompone il puzzle del suo complesso vissuto il cui eco si estende al suo libro Io sono Amleto. Achille Idol fonde il club, la droga, le icone rock e underground con cui si è formato, in un viaggio cosmico e allucinato, che esce dallo stereotipato disagio del ghetto periferico e si illumina nella sofisticatezza, perversamene glamour, della sua icona. Per citare John Giorno: You Go To Burn To Shine.
Di certo Achille Idol, oltre a sbaragliare l’addomesticato palco sanremese, con la sua scenica corporeità e lo sbeffeggiante testo, ha imposto un dubbio (che è una certezza), una dichiarazione plateale sulla liquidità del gender, su ciò che Judith Butler definisce come un incasellabile post-genere, che contrappone la solidità della masculinity ad una dimensione gassosa. Oltre il maschile e il femminile, oltre gli schemi omologanti della sessualità politicamente corretta, oltre la piatta divisione binaria e oltre il corpo catalogato, assemblato e incasellato dal gender. Scavalcandone la retorica e operando con leggerezza e anticonformismo, sulla scia del mitico Leigh Bowery, consapevolmente o meno.
La performativity di “Me ne Frego”
E arriviamo al concetto di performativity su cui, spesso si è ribadita la sua connessione con la performance art, il cui display è immensamente più esteso e sconfinato e la sua percezione più accattivante. La performativity è un concetto chiave oggi e con cui bisogna fare i conti se si frequenta questa monditudine e di cui si chiosa, tra l’altro, nel recente The performance in Contemporary Art di Catherine Wood. Achille Idol, è il suo corpo incarnato, che trascina le influenze tra il modo in cui noi immaginiamo l’Io, il Noi e l’Altro e l’ambizione, l’eccentricità e il turbamento, di trasgredire alla catatonia del pensiero convenzionale.
L’idolo è soprattutto un transformer perché è il risultato di un training progettuale. Il suo corpo schermico si lascia traslare nelle esibizioni più spettacolari e multisensoriali, sdrammatizzando la rivendicazione bodista anni Settanta perché è il suo reverse in quanto propone un soggetto liberato dai tabù. E dunque esibisce un corpo estetizzato, brandizzato, tatuato, truccato, svelato e dunque pixelato, postato, iper-visualizzato, moltiplicato, fino a divenire proiezione dell’immaginario collettivo, cablato dentro un transfert desiderante.
La magneticità dell’idolo vestito Gucci
Poiché il performing act è connesso con lo show e si slabbra tra catwalk e mega concerti delle rockstar, sorvola la nicchia dei luoghi d’arte contemporanea.
Non è un caso che i fantasmatici outfit dell’idolo, che reiscrivono iconografie mitiche e planetarie come quelle di un San Francesco glam-rock o di un David Bowie-Ziggy Stardust fiammeggiante e che rappresentano identità in trasformazione, gender-fluid, siano stati creati da Alessandro Michele. Del resto il nostro idolo è un codificatore di stile, post-dandy o post-punk, è sempre alla ricerca di mises sofisticate e stordenti, che interagiscono col suo essere. E’ indubbio dunque che il creative director di Gucci si sia reso conto quanto il carisma dell’idolo sia potente da far infiammare la kermesse sanremese. Ciò grazie alla corporeità dissacratoria e autenticamente esibizionistica, di una personalità spregiudicata come quella dell’expanded performer, che riesce a insinuare il germe di un nuovo sentire e l’ossigeno di una nuova soggettività, rubando l’attenzione e infischiandosene della percezione generalizzata. Non a caso il refrain di Achille Idol è Me ne frego.
Le fiammeggianti parole che costruiscono concept in libera uscita sulla performance sanremese di Lauro, non riescono a nascondere la vacuità del personaggio. Ma se lasciassimo in pace l’Arte, una volta tanto? Niente di nuovo sotto al sole.
Sono d’accordo!