Maestro appartato di una scultura poetica, esploratore solitario dei movimenti artistici di rottura e delle loro turbolenze dagli anni ’50 a oggi, Bruno Conte è morto l’1 febbraio, a 81 anni, a Roma, sua città natale. «Anacoreta lontano dal mondo», nelle parole di Fausto Melotti, «Personaggio tra i più garbati, più segreti e più affascinanti che io abbia mai conosciuto», scriveva Arturo Schwarz, Conte partecipò giovanissimo alla Quadriennale di Roma, nel 1955 e nel 1960. Nel 1956 fu invitato alla XXVIII Biennale d’Arte di Venezia, quindi fu tra gli artisti della Galleria dell’Obelisco, che lo fece conoscere anche negli Stati Uniti.
Tra gli altri, espose insieme ad Emilio Villa, Nanni Balestrini, Mirella Bentivoglio, Rodolfo Aricò, Giuseppe Uncini, Carlo Lorenzetti, Giulia Napoleone, trovando sempre nuove energie per portare avanti una ricerca personale, intima, sincera, continuata fino agli ultimi giorni.
Nel 2013, il MART di Rovereto gli dedicò “Le carte, i libri”, un’ampia antologica, con 65 opere, dal 1959 agli anni 2000, per raccontare il suo interesse per la scrittura iconica. Curata da Giuseppe Appella, La mostra era affiancata, negli spazi della biblioteca del museo, da una selezione di libri-oggetto lignei conservati presso l’Archivio del ’900.
«Così egli materializza, in una dialettica delle forme che si aprono e si chiudono per intrappolare i nostri sogni, visioni euclidee, enigmatiche, ieratiche, irrazionali, oniriche, erotiche. A distanza di anni è ancora viva l’emozione che provai nell’assistere, con intenso diletto, a quella che oserei chiamare una lucida operazione di palingenesi immaginifica», sono ancora le parole di Schwarz.
Nel 2018, un’altra antologica, “Disegni, sculture, libri d’artista”, con 80 opere, fu presentata all’interno della Sala Aldrovandi della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.
Fin dai primi anni del suo percorso artistico, Conte trovò il modo di ibridare la superfice della pittura, la materia della scultura e la leggerezza della scrittura, portando avanti, parallelamente alle sperimentazioni oggettuali, una feconda attività letteraria, pur discostandosi dalla coeva Poesia Visiva.
Dalle possibilità astratte di una pittura tendente al monocromo, alla realtà delle cose, indagata tanto nella forma quanto nell’evento, come nel caso dei libri lignei, per poi ritornare, negli anni ’90, alla rappresentazione pittorica, colta però nel suo dato sfuggente, ambiguo, concettuale. «Nel lavoro di Conte c’è un’analogia tra l’aspetto esterno libresco e il contenuto delle pagine lignee che consiste in un gioco equilibrato tra i singoli elementi che lo compongono», scriveva nel 1992 Gillo Dorfles.
Più recenti, nella produzione di Conte, i “paginari”, opere-libro in cui la sequenza delle pagine è composta in un riquadro a parete. Oggetti fatti «per una visione quindi simultanea, seppure sfuggente nel dialogo tra le parti e nello sporadico intervenire dei sottili messaggi, tendendo comunque il complesso a un inquieto equilibrio d’attesa», spiegava lo stesso Conte.
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