Con la scomparsa di Ennio Calabria finisce anche una visione “impegnata” dell’arte e della vita di cui bisognerebbe in ogni caso continuare a tenere accesa la scintilla. Non a caso la prima mostra personale che rivelò l’inquieto e anomalo talento di Calabria, e inaugurata l’8 novembre 1958 alla Galleria La Feluca di Roma fu giustamente definita da Marcello Venturoli una partenza “fuori moda”, in senso positivo, e tale caratteristica divenne poi stabile nel percorso solitario di questo artista votato sempre a inseguire un’autenticità esistenziale e pittorica fondata esclusivamente su complesse ragioni interiori e mai condizionata da comodi calcoli pratici, legati al mercato o ai linguaggi di volta in volta dominanti.
Da allora sono trascorsi oltre sei decenni vissuti appassionatamente da Calabria attraverso la pittura, strumento conoscitivo delle infinite trasformazioni di un mondo passato dalla Guerra Fredda all’attuale dominio globale delle corporazioni hi-tech e di un’Italia ormai irriconoscibile, passata dall’entusiasmo della ricostruzione e del boom economico allo spaesamento dell’odierno ruolo di emblema della crisi europea. Una pittura di “storia”, dunque e pur in senso ampio, etimologico (dal latino “historia”, ovvero “ricerca, indagine, cognizione”), mai illustrativo, con una profonda identificazione fra vicende collettive e autobiografia interiore. Questa via solitaria è stata capace di rimettere continuamente in discussione, da più punti di vista, l’idea stessa di “figurazione” che ha assorbito tutte le inquietudini del nostro tempo e ha continuato a sintonizzarsi con quella radicale mutazione antropologica dell’homo consumens intuita pionieristicamente dall’artista nato a Tripoli nel 1937 ma romano d’adozione.
La sua pittura “sociale”, come amava definirla, andava sempre nella profondità magmatica di un sentire collettivo che era quasi opposta alle magniloquenti “illustrazioni” di Renato Guttuso, che dapprima lo apprezzò come nuovo talento pittorico per poi isolarlo e ostacolarlo come temibile avversario per un’egemonia artistica e politica che invece non ha mai interessato Calabria, se non come mero strumento per migliorare la vita degli altri. Con i suoi straordinari manifesti realizzati negli anni Settanta e Ottanta per la Cgil e non solo, l’artista, come ha raccontato lui stesso, ha stabilito un rapporto fondamentale «Con le organizzazioni dei lavoratori che sono state committenti reali, partecipi. Mentre gli operai di fronte all’opera d’arte si comportavano da estranei, delegando quasi il giudizio ad altri soggetti più competenti, nel momento in cui si trovavano di fronte un’immagine prodotta da un artista per un loro manifesto, che doveva esprimere la loro identità verso l’esterno, si trasformavano in sottili critici d’arte. Quella situazione contrasta con la solitudine nella quale oggi mi trovo, con la sensazione di portare avanti una ricerca, un lavoro, e avere di fronte degli interlocutori completamente assenti».
Del resto, ancora oggi resta ingiustificabile di fronte all’esplosiva vitalità della pittura di Calabria un lacunoso interesse da parte delle istituzioni museali pubbliche e della critica più sfacciatamente egemone. Per fortuna nel 2018 si è tenuta nelle sale di Palazzo Cipolla a Roma, grazie all’impegno di Emmanuele Emanuele, una grande rassegna retrospettiva in cui per molti hanno rappresentato una vera e propria rivelazione le opere dipinte dall’artista a partire dai primi anni del nuovo millennio, fra cui lo sconvolgente, epocale L’Uomo e la Croce (2016).
Fare pittura per Calabria significava portare avanti, nei territori dell’ignoto e del profondo, un atto conoscitivo ogni volta inedito, in relazione al tempo, che reca con sé “informazioni” nuove, impreviste ed imprevedibili a priori. In tutto il suo percorso è sempre prevalsa un’idea di arte come bene sociale, con un suo valore radicale, conoscitivo ed etico e non come oggetto di speculazione, mercificazione e d’investimento economico. In qualche modo il nostro artista cercava di cogliere le trasformazioni antropologiche dell’uomo nei tempi lunghi.
«La pittura non è pura pennellata – ha detto Calabria – non è qualcosa di esterno a te, ma è il tuo liquido biologico, un tessuto, come se tu trasferissi qualcosa di fisiologico sulla tela. Io sono e traduco il mio essere nella pittura. Questa è l’unica funzione che oggi può avere la pittura. L’unica funzione». Le sue opere, anche dopo la conclusione del processo operativo, continuano a prendere forma davanti ai nostri occhi, inesorabilmente e inevitabilmente, mutevoli e sempre mutanti, come se fossero animate da forze segrete, misteriose, metamorfiche, ectoplasmatiche che esercitano una costante azione sismica, deflagrante, sulle figure trasformate in campi energetici. Nei suoi quadri ogni centimetro quadrato di superficie dipinta è un fascio di nervi intricati e quasi pulsanti che ci spinge non a “subire” una figura immediatamente riconoscibile ma a cercare e sentire una forma in transito, in divenire, umanamente in trasformazione.
Parlando dei propri straordinari “Ritratti politici” (da Stalin a Mao, da Che Guevara a Gandhi, solo per dirne alcuni) Calabria ha spiegato: «Questi personaggi mi sono stati commissionati se pur indirettamente dalle forze più vive e giovani della società europea e del mondo. Devono così poter essere fruiti al termine della loro realizzazione orizzontalmente (sfidando la foto) da queste stesse forze committenti. Dipingo ritratti di personaggi di tanto rilievo perché penso che in essi si manifestino con più vigore che nell’uomo della strada le tendenze etiche dell’uomo moderno».
In un’afosa serata estiva, l’amico Ennio mi disse di sentirsi in viaggio verso il tempo dell’essere e ora senza dubbio il suo viaggio continua in un’altra dimensione, di ben altro mistero e profondità rispetto al nostro breve itinerario terreno, pur illuminato dalla sua pittura così autentica e magnificamente sconvolgente.
I funerali dell’artista si terranno lunedì, 4 marzo, alle ore 11:30 nella Chiesa degli Artisti, a Roma.
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