In genere siamo soliti considerare i filosofi persone strambe, distratte, poco attente alla cura dell’immagine, un po’ noiose e fuori dagli schemi. E generalmente questo bias funziona, ha una sua logica. Non ferrea, assoluta ma, quantomeno, probabilistica. In Italia invece, da sempre Paese televisivo, abbiamo avuto sfilze di personaggi “filosofici”: l’ingegnere prestato alla filosofia greca, che scrive libri su Socrate e i presocratici ma che ci illumina soprattutto con la saggezza di strada della sua terra. Il dotto professore, in rigorosa divisa da dipartimento universitario, occhiali tondi, giacca grigia e cravatta scura, che ci parla di una catastrofe imminente, il dominio della Tecnica sull’Uomo, con eleganza e un tocco di ironia. Il filosofo e politico, fascinoso e sofisticato, che comincia gli interventi con pacatezza e finisce per indignarsi fino a urlare come un ossesso. Oppure il giovane pensatore che si professa marxista-marxiano ma che dialoga con destrorsi e leghisti solo perché non ha trovato compagnia migliore per contrastare la dittatura del Capitale globalizzato.
Figure affascinanti e complesse. Ma che hanno tutte un padre putativo, un personaggio che prima di altri, ha colto le potenzialità divulgative della filosofia a mezzo catodico. Ma che, soprattutto, si è aggiustato la barba, i capelli, ha indossato tagli sartoriali, scuri ma anche gessati sabbia, con cravatte colorate e di personalità. In perfetto ordine, aspettando quei canonici cinque secondi prima di andare in onda. Gianni Vattimo, figura centrale del panorama filosofico italiano contemporaneo, ci ha lasciato pochi giorni fa, il 19 settembre 2023, a 87 anni.
Era divenuto negli anni ‘80 una celebrità internazionale grazie a un paio di volumi usciti con Garzanti: La fine della Modernità e Il Pensiero Debole, in collaborazione con Pier Aldo Rovatti. Classe 1936, nato a Torino, città dove ha studiato e si è laureato, Vattimo si è specializzato all’università di Heidelberg con i maestri H. G. Gadamer e K. Loewith, insegnando Filosofia Teoretica all’Università di Torino e in alcune università americane (Yale, Los Angeles, New York University, State University of New York).
Fin dagli anni ‘60 ha curato diversi programmi educativi della Rai. Ma è negli anni ‘80, sull’onda del successo filosofico mondiale, che gioca con il suo volto fotogenico, la sua figura distinta ai limiti dello chic, poco radical e molto pop. Numerose clip con tv di tutto il mondo, interventi, interviste. E poi La Clessidra dei filosofi, su Raitre. Un programma innovativo e lungimirante, di quelli che arrivano troppo presto ma che lanciano un messaggio, accendono un faro: parlare di cose complesse in modo leggero e anche divertente. Dieci puntate con ospiti come Remo Bodei, Italo Mancini, Francesco Barone, Emanuele Severino, Massimo Cacciari, tra gli altri. Il format era quello del debate filosofico all’inglese: tre minuti, contati da una clessidra, per esprimersi su tematiche come il nulla, il falso, l’arte e l’illusione, la giustizia e la politica, la fine del soggetto. Tutto questo in prime time, alle 19:30, su una rete nazionale. Ascolti pochi ma ormai la strada era spianata.
Protagonista di altre trasmissioni celebri, come Mixer Notte, insieme a Luciano De Crescenzo, con cui si dilettava a confrontare il suo pensiero postmoderno con la canzone napoletana, leggera e tragica al tempo stesso. Sarà poi uno dei primi volti della avventura multimediale e telematica di NETTUNO – Network Università Ovunque, consorzio di 35 università italiane e la Rai che, dal 1993, assicuravano lezioni a distanza per studenti impossibilitati a seguire le lezioni in presenza. E poi, negli ultimi anni, sempre presente sull’Università della Conoscenza, versione web-tv dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche (opera realizzata dalla Rai e dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici).
Gianni Vattimo aveva capito prima di tutti che anche il suo pensiero, le sue idee, il suo duro lavoro di pensatore e scrittore di filosofia, dovevano lasciare la stanza di Heidelberg, le sale silenziose e un po’ sperdute dei dipartimenti di filosofia per andare oltre, per incontrarsi con la gente, parlare di filosofia con un linguaggio semplice e quotidiano, per tutti. E la televisione in fondo era lo strumento madre per dimostrare e diffondere questa rivoluzione dei linguaggi e delle idee che Vattimo predicava. Un rivolo di parole, immagini, musiche, gingle, sketch, spot televisivi che meglio di qualsiasi trattato di logica o di metafisica sancivano «La dissoluzione del pensiero forte e della struttura autoritaria della modernità».
Se Jean-François Lyotard, con l’opera La Condition postmoderne: rapport sur le savoir del 1979, aveva delineato la crisi della forza strutturante e definitoria delle grandi ideologie occidentali (Illuminismo, Idealismo e Marxismo) e Francis Fukuyama ci aveva raccontato “la fine della Storia” con la caduta del Muro di Berlino del 1989, Gianni Vattimo non ha mai smesso di metterci in guardia da questo gioco delle scatole cinesi, di queste grandi matrici narrative, sfuggenti agli occhi e alla riflessione dei più.
Come lo stalinismo smentiva il metaracconto marxista, e la shoah e la Seconda Guerra Mondiale quello illuminista, così Vattimo addita lo stesso difetto strutturale alla Postmodernità. Quello di essere, in fondo, l’ennesimo grande racconto contenitore della fine di altri racconti, più brevi e meno universalizzanti. Caduti i grandi concetti “donati” alla storia dall’Occidente – uomo, progresso, essere, libertà, uguaglianza – siamo rimasti impantanati in una realtà fluida e sfuggente, risultato di tante piccole narrazioni, tanti piccoli poteri locali e isolati, non meno spietati e accecati dei poteri precedenti.
Ma per Gianni Vattimo, la fine della storia era appunto uno spot politico, un ritornello televisivo usato dai «Politici rimasti ormai senza voti», alla volta di una società che, nonostante tutto, poteva iniziarne un’altra, di storia, vivendo una «Realtà più vaga, alleggerita, facile da pensare» ma più difficile da capire. E cosi il mass media, la televisione di allora e le clip di oggi, brevi, audaci e fulminanti, diffuse sul web, “leggibili” in pochi minuti e fruibili per tutti. Come quell’intervento alla tv svizzera del 1981, in cui provò a immaginare la fine di un’arte contemporanea intesa in senso benjaminiano, come forza aurea dell’opera, potente e solitaria nella sala del museo. Alla volta di una moltiplicazione creativa, effimera, dove non conta tanto l’oggetto d’arte quanto la comunità che lo fruisce, che è soggetto e oggetto di quella comunicabilità universale, che inizierà proprio in quegli anni la sua corsa verso il sopravanzamento – auspicato o temuto – di ogni dimensione visuale ed estetica contemporanea.
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