Quando muore un filosofo, in un’epoca come la nostra, si apre una voragine di silenzio che fa tremare il senso delle cose.
Trema così tanto che incassiamo il colpo muti, come se la sua morte avesse inghiottito quel che rimaneva del linguaggio e noi fossimo rei di non averlo praticato abbastanza. Perché al linguaggio bisogna credere come ad un atto eccellente, un esercizio che rivela i fatti, li fa muovere in dialogo con la nostra ambiguità e il nostro stare nel mondo, capaci di esprimere più chiaramente chi siamo.
Ho conosciuto Franco Rella al Monastero di Fonte Avellana qualche anno fa, in uno dei preziosi convegni annuali organizzati da Matteo De Simone, presidente dell’Associazione Psicanalisti italiani, che da una dozzina d’anni si occupa di mettere insieme filosofi, artisti, psicanalisti, letterati, poeti affinché si stringano attorno ad un tema dato. E nonostante avessi letto e anche riletto la sua opera, l’incontro con lui fu inaspettato.
Di persona ebbi la possibilità di riscontrarne il fervore, la serietà e la spregiudicatezza, una specie particolare di ardore che mi rese subito felice, quella che si muove incendiando il filo sottile che sta tra razionalità e irrazionalità, quel filo che gli artisti conoscono così bene da amarlo più di qualunque equilibrio. O meglio, non solo per questo. Ci parlammo dopo una mia performance. Parlare dopo una performance è una cosa che detesto. Non voglio essere né intelligente né colloquiale, figuriamoci sorridere. Mi chiese se potevamo vederci perché “ho capito quello che hai fatto”, mi disse. Io avevo ancora le mani sporche di latte, per mezz’ora avevo lavato un manichino morbido inzuppandolo in una abluzione fatta di uno stesso gesto ripetuto. Con lui c’era anche sua moglie Sandra Dorigotti, una persona ammirevole. Nessuna parola di circostanza, ci guardammo tutti e tre come se tra noi ci fosse un istinto primordiale.
Aspettammo un altro anno prima di parlarci di nuovo ed entrare in una forma di dialogo con le parti più vulnerabili di me, come se un esercizio di crudeltà fosse la soglia verso un nuovo livello di tenerezza e comprensione. E da allora in poi devo a Franco Rella, il filosofo schivo, diretto, coraggioso e illuminato, il merito di aver preso in carico una parte di responsabilità sull’espressione che spero di poter portare avanti nel tempo sempre più dichiaratamente, esercitando il mio limite anche dall’altro versante del confine, quello dell’ignoto.
Perché è questo che i filosofi fanno: abilitarci a livelli di vita che, come un terzo polmone sottovuoto, ci abitano nascosti, finché qualcuno non ci viene a pompare aria dentro e iniziamo a respirare con un polmone in più.
Sempre di più sublime, mito, eros, violenza, memoria, poesia, arte, bellezza, oblio, Rilke, Mann, Nietzsche, Holderlin, Kafka, Valery, Van Gogh, Bataille: un continuo intreccio di temi i suoi, temi che sembravano già esplorati prima ma che lui è stato capace di portare a un livello ulteriore, ricco di visione. Solo una visione, infatti, in questo panorama bellissimo e caotico, fa di ognuno di noi un essere umano irrinunciabile attraverso il quale passano gli occhi di tutti e si riformulano: la lettura di tutto e la leggibilità del nascosto che ci rincorre, e quel senso di responsabilità che libera il talento perché, se è vero che ognuno di noi risponde ad un compito che nessuno gli ha dato (e questo gli artisti lo sanno bene), è vero anche, per dirla con Rilke, che “la mia vita è una specie particolare d’amore” e l’ardore filosofico brucia questa frase fino a farla risplendere nel buio.
Se ne è andato dunque, dopo una malattia, un grande appassionato della vita, che ha lavorato e scritto affinché anche la nostra conoscenza crescesse in sapere, curiosità, fervore e dialogo. Chiedetemi dunque se esiste un altro nome della filosofia, un altro nome al servizio del senso delle cose.
Ci mancherai tanto, Franco.
Ci mancherai tantissimo.
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