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Andrea Lissoni all’Haus der Kunst di Monaco: l’intervista
Personaggi
di Petra Chiodi
Dal 1 aprile 2020, il curatore milanese Andrea Lissoni (1970) – già curatore di Pirelli HangarBicocca e dal 2014 Film and International Art Curator alla Tate Modern di Londra – sarà il nuovo direttore della Haus der Kunst di Monaco di Baviera. Lo abbiamo intervistato
Come é arrivata e come hai accolto questa nomina?
«Con un tradizionale processo di selezione: il comitato di esperti che supervisiona il programma artistico di Haus der Kunst ha nominato un comitato internazionale di selezione e sono stato chiamato a parteciparvi. Penso che tutta la procedura sia disponibile online. Inevitabilmente ho accolto la nomina con sorpresa e piacere».
Il comitato di selezione di Monaco ha dichiarato che “sei particolarmente esperto sulla scena internazionale nella creazione artistica interdisciplinare”. Pensi che questa motivazione sia stata fondamentale, ai fini della scelta finale, perché si riallaccia alla mission “globale, multifocale, polisemica” della Haus der Kunst?
«Suppongo di si, anche se presumo che sia stato anche importante il colloquio con il Finding Committee e il tipo di atteggiamento e di visione che ho condiviso in quell’occasione».
A questo proposito, la prospettiva che stai sviluppando per la Haus der Kunst “si basa su una forza centrale: condividere il significato dell’arte e della cultura contemporanea in modo interdisciplinare, aperto, originale, visionario, invitante e ottimistico”. Come si fonde con la mission del museo?
«In modo molto stretto e spero coerente. Credo sia possibile provare a dare vita a un progetto generale che vada oltre la sequenza di mostre personali e collettive e le loro rispettive performance, e immaginare quale e’ la forma ideale per accogliere e diffondere le pratiche contemporanee più rilevanti ed eterodosse. Guardando avanti e al tempo stesso indietro verso i percorsi più inventivi che meritano di essere finalmente riconsiderati nella loro ampiezza e portata».
Hai un modello di riferimento?
«Non ce ne sono più molti dopo le utopie di ormai mezzo secolo fa, come era stato nelle premesse il Centre Georges Pompidou ed alcuni festival storici più recenti. Credo che il lavoro fatto nei Tanks di Tate Modern con le Live Exhibitions insieme a Catherine Wood rimarrà una matrice importante».
Mi piacerebbe sapere qualcosa del “bagaglio” che porti con te.
«È un bagaglio molto leggero, come quando viaggio, e piuttosto colorato. Direi che con me porto soprattutto la curiosità; curiosità che non si è ridotta, al contrario incredibilmente accresciuta, soprattutto a Tate Modern, dove l’impatto con i saperi, le conoscenze e le relazioni di colleghi in dialoghi con tutti i territori e tutti i momenti storici può all’inizio essere spaesante. Porto l’ascolto e l’attenzione alle note, i consigli, le osservazioni di colleghi e compagni di strada di ogni background, ruolo e posizione, che sono stati determinanti a regalare grandi soddisfazioni, agli artisti, ai team e spero anche al pubblico. Porto un senso del non avere timore e di spingere sempre un po’ oltre i limiti, di vederli come risorse e di trasformare problemi in opportunità di sperimentare. Questo, alla fine, accomuna progetti espositivi piuttosto audaci per ragioni diverse, come Gianikian/Ricci-Lucchi, Tomas Saraceno o Joan Jonas presso HangarBicocca con le mostre di artisti con cui ho continuato a lavorare presso Tate Modern, come Joan Jonas stessa o Philippe Parreno, ma anche molto più giovani come Pan Daijing e le varie Live Exhibitions».
Che effetto fa essere il successore di Okwui Enwezor?
«Provo semplicemente a pensare che ho la fortuna di prendere parte alla vita di una Casa che ha avuto una storia formidabile, e di cui il valore sta anche nella differenza di chi l’ha guidata nel corso degli anni. Ho un ricordo preciso di Okwui Enwezor, di ciò che mi ha scritto in passato, e del valore che quelle parole hanno avuto per me, e questo mi da energia».
Energia che servirà ad affrontare le sfide che ti attendono. Quali saranno?
«Principalmente guidare un team piuttosto importante per dimensione ed esperienze. Ripartiro’ dal programma previsto per il 2020, senza toccarlo e approfittando del poco tempo per ascoltare e soprattutto imparare. La Casa e’ fortunatamente molto grande, credo ci sia spazio per molti scenari».
È un sollievo per te abbandonare il pesante clima Brexit della Gran Bretagna?
«In realtà no, è piuttosto un dispiacere. Qui ha avuto luogo una parte indimenticabile di formazione della mia vita, ho potuto accedere ad autori che mai avrei immaginato di poter raggiungere, ho frequentato assiduamente scene musicali che mi hanno stimolato e fatto pensare come mai prima. Ho partecipato all’immaginare i modi di abitare un nuovo edificio museale come nessun altro al mondo e stavo lavorando a celebrarne il ventennale. Ho vissuto in una città senz’altro contraddittoria ma ricca di verde e di silenzio come nessun’altra Capitale, abitata da animali notturni e attraversata costantemente da pensatori ed autori di ogni provenienza e formazione. È vero che il clima è pesante ma la pesantezza ha corroborato commoventi esperienze di condivisione intergenerazionale radicale come Extinct Rebellion, in cui ottuagenari prendono posizioni forti e di protesta nelle piazze, e il Brexit è un motivo di confronto intenso su un devastante problema reale, a cui gli artisti non si sono certo sottratti. Insomma, il clima è pesante ma anche generativo, sotto molti punti di vista».
Ti rivedremo ancora in Italia in veste di curatore di progetti speciali come la Biennale dell’Immagine in Movimento alle OGR di Torino?
«La BIM 2018 è stata un progetto formidabile perchè basata su stima e rispetto umano e professionali molto sinceri. È stato molto bello che l’armonia con Andrea (Bellini) sia stata raccolta e condivisa da Nicola Ricciardi ed il suo team a Torino, sarebbe fantastico che condizioni simili si ripetessero prima o poi».