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ARCHITETTURA X ARTE
Personaggi
Opera sempre a regola d'arte, ma la sua formazione è architetto. Il suo mondo è la techné, ma il suo regno è la visione. I suoi progetti non sono creazioni, ma vere e proprie creature; sono bruchi come palazzi, funghi al contrario, torri impossibili e giganteschi ago & filo. Quattro chiacchiere con Marco Della Torre, l’“architetto degli artisti”...
di Ginevra Bria
dalla fine. Parlaci della tua ultima realizzazione nostrana: il progetto per il
Macro di Roma, vincitore dell’Enel Contemporanea Award 2010, Are you really
sure that a floor can’t also be a ceiling? del duo
olandese Bik van der Pol.
È una sorta di
modello architettonico liberamente ispirato a un’icona del modernismo: la Farnsworth
House di Mies van de Rohe. Anziché fungere da abitazione, studiata in
origine come una palafitta in
grado di adattarsi al terreno circostante, questo modello scomponibile in scala
ridotta, a circa il 75%, è una casa provvisoria per le farfalle. Attori
sensibili a trasformazione e cambiamento, sentinelle capaci di mutare da uno
stato all’altro, le farfalle non sono mai come appaiono. I visitatori entrano
nella casa e le pareti di vetro del modello hanno qui una doppia funzione: da
un lato fornire una visuale completa della serra creata dall’uomo e dei
visitatori che vi camminano all’interno, dall’altro creare un ponte tra lo
spazio interno e quello museale. Enzo Moretto, uno dei maggiori entomologi
italiani, nell’arco di cinque settimane ha aiutato me e il duo dei Bik van
der Pol a preventivare e ad attuare le fasi di costruzione del padiglione, una
struttura che misura 18×13 metri di lunghezza e 2,90 d’altezza. All’interno,
lungo un sentiero percorribile isolato, vengono distribuiti circa 85 metri
quadri di piante tropicali, tenendo presenti anche i sistemi di illuminazione e
aereazione per la flora e per le farfalle. La parte superiore infatti è
gonfiabile e trasparente. Ogni parte del progetto deve essere scomponibile e
itinerante, perché il lavoro va esposto in altri spazi. Credo anche che l’opera
diventerà visitabile durante la Biennale di Venezia del 2011.
Tornando
agli inizi: raccontaci in breve del tuo percorso, cominciato con
l’architettura, tra la California del Nord e De Lucchi, per poi arrivare, per
discendenza diretta, all’arte…
Conclusa
l’università, nei primissimi anni ‘90 sono andato in California, a Berkeley, a
lavorare con architetti che invece portavano avanti una ricerca e una
rivisitazione del moderno. C’era davvero molta più libertà e meno incombenza e
buia reverenza nei confronti del passato. Ricordo che fu grazie a una bella
lettera di presentazione scritta da Massimo De Carlo che cominciai a lavorare
per Fernau & Hartmann, per poi entrare
nello studio di Stanley Saitowitz a San Francisco. Da lui che ho imparato a gestire i progetti seguendo
sempre la massima autonomia stilistica, ma rimanendo ancorato alle
caratteristiche del contesto e della territorialità. La vitalità ludica delle
strutture e degli espedienti architettonici, soprattutto in California, in
quegli anni non prescindevano mai dai materiali e dalle forme dei luoghi nei
quali edifici e interventi dovevano essere collocati. Durante quel periodo
frequentai la School for Environmental Design di Berkeley e il Kala Art
Institute di Emeryville. Trascorsi in California del Nord circa due anni. Ho
conosciuto anche Richard Ingersoll, uno dei più importanti urbanisti americani,
che insegnava alla Rice University di Houston e che adesso lavora alla Syracuse
University, fondatore, tra l’altro, della rivista Design Book Review.
Poi, dal 1993 al 1997, di ritorno in Italia ho
coordinato progetti in Germania per gli studi Milanesi di Pierluigi Cerri
(Gregotti Associati International) e di Michele De Lucchi. Lui mi
ha insegnato quanto sia importante comunicare la specificità aziendale
attraverso una traccia assoluta, un segno che diventi corporate identity
e memoria collettiva, elevando ogni realtà imprenditorial-produttiva a una
dimensione globale. Per quanto riguarda Cerri, è stato proprio lui a suggerirmi
a Germano Celant come supporto tecnico-analitico ai suoi programmi per la
Fondazione Prada. Fu così che realizzai la mostra di Mariko Mori e quella
successiva di Marc Quinn. Con loro è partita la vera e propria avventura
all’interno dello studio che precede l’ingegnerizzazione e poi l’allestimento
delle opere d’arte contemporanea.
Dunque,
da Mariko Mori a Carsten Höller, da Claes Oldenburg a Marc Quinn, da Pierre
Huyghe a Emilio Fantin a Vanessa Beecroft. Qual è l’artista che ti ha stupito
di più (nel bene o nel male)? E con chi ambiresti a realizzare un progetto in
futuro?
Ognuno di
loro mi ha dato qualcosa, per motivi diversi. Di tutti mi ha affascinato molto
la dimensione del pensiero. Nei progetti architettonici, l’idea non è mai così
pura e così vincente come lo è nel mondo dell’arte. Ad esempio, sono rimasto
molto stupito dal lavoro di Vanessa Beecroft. È stata davvero brava a trovare
un’immagine del proprio pensiero e poi a replicare la formula – anche negli Usa
– e rinnovando tutti gli elementi da lei assemblati con grande intelligenza.
Lavorando con gli artisti di oggi e analizzando i diversi progetti, però, mi
rimane sempre una domanda alla quale non so rispondere: ma che cosa ne rimarrà
di tutte queste opere, tra venti o trent’anni? Sono abituato a vedere mio padre
alle prese con il disegno e con l’incisione, a vederlo lavorare
instancabilmente su alcuni centimetri quadri di supporto e a vedere le sue
opere di trent’anni fa praticamente stabili, se non identiche. Invece,
lavorando anche con Acconci e con Kapoor, mi sono reso conto della molteplice instabilità
del progetto e delle sue realizzazioni. Comunque, trovo molto interessanti
metodi e approcci dei progetti di Olafur Eliasson, di entrambi i Garutti e
anche dei giapponesi ultra-ludici come Murakami.
Quale progetto ti ha messo più
duramente alla prova? Quale ti ha reso più orgoglioso?
Con Mariko Mori e il Wave Ufo
ho sviluppato un progetto nel quale abbiamo sperimentato di più. In quegli anni
di ricerca spesi accanto alla definizione del colore del pigmento e delle influenze
neuronali di ciascuna delle parti dell’opera, ho realmente provato
coinvolgimento. Affinità totale con ogni scelta presa. Dal 1999 al 2005 posso
dire di aver passato del tempo a stupirmi e a imparare, prima di costruire. È
stata una lezione importante della mia vita.
Da Zona Tortona al Castello di
Rivoli, dalla Fondazione Prada al Kistefos Museet, alla Kunsthaus di Bregenz:
di volta in volta come si è modificato il tuo rapporto con le istituzioni
italiane e straniere?
A Bregenz, ad esempio, sono
rimasto stupito dall’enorme dignità che viene riservata anche ai lavoratori più
umili. Dagli intendenti di sala ai magazzinieri, l’atmosfera lavorativa è
caratterizzata dal rispetto per il ruolo di ognuno. Se in Italia resta la cura
artigianale per i dettagli, all’estero credo esista molta maggiore attenzione
alla professionalità dei singoli individui. Il tipo di lavoro che io svolgo in
Italia credo che sia possibile solo perché non esiste, così come è presente
all’estero, un reparto tecnico interno, un team di esperti alle dipendenze di
spazi, collezioni e programmi di musei e istituzioni.
Per quanto riguarda l’arte
contemporanea, so che hai già in agenda la realizzazione di progetti
importanti. Ce ne parli?
Per ora non potrei quasi dire
nulla, si può solo far sapere che, qualora mi dovessero dare conferma
definitiva, dovrò portare a termine un progetto di torre molto particolare che
costruiremo, elaborando un’idea di Carsten Höller, a picco su una cascata,
all’interno del parco del Kistefos Museet, in Norvegia. Per il resto, su
proporzioni e modalità tecniche della realizzazione, è ancora assolutamente
tutto riservato.
Que
viva Enel Contemporanea
Intervista
con Vanessa Beecroft
a cura
di atto belloli ardessi e ginevra bria
[exibart]
Costruzioni create più per stupire che a rendere funzionale, confortevole lo spazio umano. Immagino l’impatto sul contesto ambientale, in termini di dispendio, consumo di energia e inquinamento.