«Da tempo faccio sculture con il linguaggio, come Built for Crime (2006), Satisfy Me (2010), Same old Shit (2018), Desire (2009) o Hy$teria (2019)». A dircelo è Monica Bonvicini, riconosciuta per la sua ricerca poliedrica con cui indaga il rapporto tra architettura, strutture di potere, genere e spazio, che si traduce in opere che mettono in discussione il significato del fare arte, l’ambiguità del linguaggio e i limiti e le possibilità legati all’ideale di libertà. Bonvicini non rinuncia mai a stabilire un legame critico con i luoghi in cui viene esposta, con i suoi materiali e con i ruoli di spettatore e creatore. Oggi una sua opera è installata in modo permanente al Queen Elizabeth Olympic Park di Londra, e la sua mostra I do You è in corso alla Neue Nationalgalerie di Berlino.
Abbiamo intervistato Monica Bonvicini per parlare della sua ricerca e del rapporto tra arte, linguaggio, architettura e pensiero politico.
Come è nata l’idea di RUN?
Monica Bonvicini: «Ho vinto il concorso per un’opera luminosa nel parco olimpico in un periodo in cui il parco olimpico era solo sulla carta. Costruita nel 2012 per le Olimpiadi di Londra Art in the Park, “RUN” è alta 9 metri ed è composta da lettere illuminate a specchio. Alla luce del giorno, le lettere fungono da specchio per i visitatori e per l’ambiente circostante, mentre di notte diventano più trasparenti e si illuminano con più di 8000 led interni. RUN si fonde con il paesaggio, evitando la monumentalità grazie al rispecchiamento dell’ambiente circostante. Di notte, i riflessi psichedelici della luce illuminano l’opera in modo eccitante, elegante e spiritoso».
Qual’è il tuo immaginario su Londra?
Monica Bonvicini: «Ho vissuto a Londra con una borsa di studio di Berlino a metà degli anni ’90 e ho frequentato molti club in quel periodo, c’è sempre stato un buon panorama musicale in città ed è sempre stato così, se si pensa a ciò che è venuto fuori da lì negli anni ’60 e ’70 con i Beatles, i Sex Pistols, Siouxsie & the Banshees, i Clash, Donavan e Dylan fino a Kate Bush, Bonnie Tyler e Amy Winehouse. Era chiamata la swinging city e per me Londra è ancora una città straordinaria in continuo movimento. Per me è stato quindi molto facile pensare a una RUN; adoro anche la canzone RUN RUN RUN di Lou Reed o Runnnd Dry di Neil Young, canzoni che ho utilizzato, solo in parte, per la doppia installazione video Run, TAKE one SQUARE or two (2000). Nel 2000 ho realizzato per il Kunstverein di Salisburgo un’edizione composta da titoli di canzoni degli anni ’60 e ’70 contenenti la parola Run. In effetti, il cartello che descrive l’opera a Londra è proprio un elenco di canzoni con la parola RUN. L’opera RUN è stata una bella sfida in termini di materiali: i led all’interno delle superfici a specchio che creano un effetto di luce infinita quando si accendono la sera. Ho anche sempre pensato che se fossi stata un’adolescente in uno dei condomini di fronte a RUN e avessi ascoltato musica ad alto volume da sola nella mia stanza, mi sarebbe piaciuto vedere RUN illuminarsi e pensare che sì, si può scappare…».
Puoi dirci qualcosa di più sull’uso del linguaggio? Ad esempio I do You a Berlino: come sei arrivata a sintetizzare queste parole?
Monica Bonvicini: «I do You (2022) è una grande facciata di 15 x 15 m appoggiata davanti all’ingresso della NNG; la prima che si vede, l’ultima che si lascia. Le tre parole sono un estratto di una citazione, ricavata da una mia opera su specchio. Una cornice parziale isola parte della frase, risultando in un’affermazione privata del suo contesto e del suo messaggio originale. Il lettering mira ad amplificare la voce interna dell’edificio: qui è l’architettura che parla, il museo che parla al pubblico e l’artista che parla alla città e all’istituzione. L’opera è provocatoria, ingombrante e allo stesso tempo elegante. “I do You” urla silenziosamente un importante richiamo alla politica, un imperativo sui ruoli e le responsabilità della cultura e delle istituzioni museali in generale, aprendosi a molteplici possibili narrazioni attraverso la sua frammentazione linguistica».
Questo come si misura con l’architettura?
Monica Bonvicini: «Anche se la concezione di Mies van der Rohe della NNG, con la sua pianta aperta, mirava a smantellare gli elementi di divisione tra arte e pubblico, promuovendo una maggiore interazione tra la città e l’arte nello spazio espositivo, il risultato complessivo è piuttosto evocativo, un consumismo dell’arte simile a quello che una vetrina serve al modello capitalistico, aumentando la distanza tra accessibilità e cultura. Si tratta di una sorta di classificazione del gusto, delle classi sociali e delle possibilità confinate nei negozi di lusso, aperti per mostrare merci preziose, ma non alla portata di tutti. Con l’audace intervento architettonico di I do You, il pubblico è protetto dall’effetto vetrina, ma allo stesso tempo si confronta con la propria immagine ed è fortemente invitato a entrare nello spazio: nutre il passante offrendo l’arte in uno spazio pubblico aperto, offrendo la possibilità a tutti di dialogare con il momento, al di là della vetrina. I do You è un’opera pubblica che funziona come un segno, come un grande cartellone pubblicitario di ciò che è un museo. Può essere, dovrà essere. Copre la trasparenza di Mies, il falso che ne deriva. L’opera attiva una sovrapposizione concettuale tra specchio e trasparenza: le superfici specchianti – per definizione – sembrano non comunicare con l’esterno. La maggior parte delle capitali occidentali è piena di edifici specchianti: impermeabili, espulsivi e omologati. Prendono dall’esterno, dallo spazio pubblico, senza restituire alcun cenno delle loro intuizioni. Con I do You, come frammento di una più ampia facciata possibile, indago il nucleo di un edificio cresciuto sulle sue contraddizioni, giocando con i paradossi dei ruoli e delle responsabilità istituzionali».
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