Categorie: Personaggi

Arte provvisoria per spettatori golosi

di - 12 Maggio 2014
Se osservassimo le nostre tavole, ci renderemmo conto di quanto il nostro sia un popolo carnivoro e impotente dinnanzi al consumo di carne: cruda, cotta, trattata, pregiata, speziata, profumata. Ne facciamo un uso smodato, pensando di poterne disporre in quantità industriali. E l’arte di tutta questa carne che cosa se ne fa? La usa! Caracci, Goya, Soutine, Chagall (per citarne solo alcuni) hanno immortalato animali scuoiati, privi di vita, appesi ai ganci dei macellai, paragonati a immagini sacre, cariche di sangue, freddezza, verità e paura. Tutt’altra storia invece, se si tratta di Damien Hirst, il quale non si fa scrupoli nel sacrificare esemplari di squalo, pecore e mucche ed esporli sotto formaldeide.
Ma Hirst ha precedenti illustri. Nel 1966 i Beatles pubblicano la raccolta Yesterday and Today, proponendo una copertina nella quale il gruppo inglese è immortalato dal fotografo Robert Whitaker in una posa che rievoca morte, brutalità e orrore. I musicisti indossano dei camici da macellaio e sono imbellettati con pezzi di carne e bambole smembrate. L’impatto con la moralità fu talmente forte da provocarne il ritiro dal commercio e la sostituzione della copertina stessa. A distanza di 44 anni Lady Gaga rievoca manifestazioni del genere, indossando un vestito fatto interamente di carne animale. Condimento di questo sandwich mostruoso, tutta una sfilza di altre celebrità, basti citare la Vanitas di Jana Sterback (1987), The Burden of Guilt di Tania Bruguera (1997-9), My New York del cinese Zhang Huan (2002) e l’abito di carne dello stilista Jeremy Scott (2010).

E i grandi chef non sono da meno, visto che divengono autori di vere e proprie opere, come Liberi tutti di Antonello Colonna, immortalata dal fotografo israeliano Dan Lev, che sarà esposta presso il padiglione israeliano all’Expo 2015 di Milano. Oltre a Colonna, tanti altri chef hanno lasciato accarezzare le loro creazioni dall’obiettivo fotografico, inserendole all’interno di un progetto artistico intitolato “Colorfood”, ospitato presso il Resort e Spa Vallefredda di Labico (Roma) di Antonio Colonna. A Labico si sono dati appuntamento anche Francesco Apreda, Heinz Beck, Francesca Castigliani, Bonetta Dell’Oglio, Cristina Bowerman e Luigi Taglienti, ognuno dei quali ha dato vita a un piatto artistico lasciandosi ispirare non solo dal colore ma anche e soprattutto dai ricordi inerenti la terra d’origine. Così Bonetta Dell’Oglio ha creato un vero e proprio vulcano in onore alla sua Sicilia; Francesca Castignani ha elaborato un’opera allegra e festosa basandosi sul colore giallo; Cristina Bowerman ha creato una mano di burro; Luigi Taglienti ha addirittura fatto a meno del piatto; Heinz Beck ha puntato invece sul colore rosa. Antonello Colonna dice infine di essersi lasciato ispirare dal colore rosso e dal volto di una donna, volendo trasmettere l’idea che ognuno intende il cibo come vuole. Nella composizione Liberi tutti appare un volto di donna avvolto in fette di carne e solo la bocca rimane scoperta, come a voler comunicare la predominanza del senso del gusto rispetto a tutto il resto. La modella viene delimitata all’interno di una cornice dorata adornata da carciofi che fungono da fiori appena sbocciati e colmano il vuoto lasciato dal vetro spezzato, come se volessero segnalare la mancanza di un interlocutore.
Le cucine, insomma, diventano laboratori e gli alimenti della natura pennelli e colori; gli chef sono artisti e noi? Mangiamo l’arte, la tocchiamo, la mastichiamo! Ma sentiamo cosa ha da dire Antonello Colonna.

Da cosa nasce l’idea di associare l’arte al cibo e come ha vissuto l’esperienza di Colorfood?
«L’obiettivo di “Colorfood” è rappresentare il processo creativo nascosto dietro ciascun piatto: l’ispirazione, la sperimentazione, la miscelazione, ma anche le degustazioni, la mise en place e infine quel tocco finale che insieme agli altri rivela un ricordo, un concetto, l’attaccamento al proprio territorio. Spesso un piatto nasce dai ricordi, dalle immagini, dal territorio di appartenenza e a volte, anche dai colori. Il colore, come fonte d’ispirazione, come tramite di desideri, emozioni, fantasie e memorie, è la chiave per entrare nel mondo creativo dello chef. “Colorfood”, quindi, come un incontro: nella casa di un cuoco, di uno chef, di un farmerchef, con la volontà di aggregare colleghi, amici, ricercatori del cibo, con un progetto comune per l’Expo 2015, a dimostrazione che i cuochi sono anzitutto artisti».
Spesso gli artisti contemporanei privilegiano il lato comunicativo dell’arte, mentre gli chef odierni portano in tavola degli alimenti esteticamente belli e poi ci invitano a mangiarli. Arte e cucina si mischiano, pensa che sia in atto una confusione di ruoli?
«Più che di confusione, parlerei di fusione o contaminazione dei ruoli. Ad esempio, l’arte e la cucina sono per me due elementi imprescindibili; contamino il cibo abbracciando l’arte contemporanea e l’arte figurativa. Picasso ha creato il Cubismo e qualcuno ha sostenuto che il cubismo sta all’arte come la nouvelle cuisine alla cucina e io sono stato uno di quelli nel sostenere questa equazione. Poi quando ho scoperto che i quadri di Picasso erano belli tanto quanto quelli di Raffaello, ho scoperto il significato della contaminazione, come ricerca e come studio».

Cosa rappresenta per Lei il colore rosso?
«Ne sono quasi ossessionato da sempre. È il rosso acceso della porta che, fin dalle origini, è stato il mio simbolo (“La Porta Rossa”, ristorante storico di Labico, della famiglia Colonna) e testimonia il profondo legame col territorio ed il grande rispetto per le tradizioni e le preziose materie prime».
Perché ha scelto di ricoprire un volto femminile con della carne animale, lasciando libera solo la bocca?
«La mia vera attività professionale inizia circa 28 anni fa, in uno stato agroalimentare e in un momento “agropolitico” in cui la nouvelle cuisine entrava di prepotenza sulle tavole italiane, sulla grande gastronomia, sulle eccellenze del cibo. Da lì poi una serie di vicissitudini, di percorsi, di mode e di tendenze di ogni genere, anche legate alle intolleranze alimentari, a volontà morali ed etiche, al veganismo, ai vegetariani, tra le quali il cibo cerca di trovare una sua posizione. Per quanto riguarda il mio percorso, ho voluto mantenere sempre come ispirazione, non solo l’agonismo, ma soprattutto la passione; questa passione che mi spinge ad unire tutto l’immaginario del cuoco che nasce, che si difende, si tutela, si reinventa e trova un suo ecosistema. Proprio per questo, il titolo della mia opera culinaria è ‘Liberi tutti’. Mi sono lasciato ispirare dal colore rosso e dalla foto del volto di una donna ricoperto da una bistecca, fondamentalmente perché, secondo me, il cibo è una scelta. Per alcuni ha una sua religiosità, per altri è un atto politico, per altri ancora è un oggetto goliardico, ma tutti possono avvalersi di ciò che la natura ci offre. Anche in occasione dell’Expo 2015, in cui si parlerà di nutrire l’ambiente e la terra, il mio messaggio con quest’opera vuole essere di totale libertà di scelta: a non prendere posizioni, a non avvalermi di certi perbenismi che non mi appartengono più. Penso che ognuno abbia il diritto alla propria libertà e rispettando quelle che sono le volontà del cibo, anche perché, il cibo è gioia».
Se fosse un/una artista, chi vorrebbe essere?
«Bruce Springsteen, emblema e simbolo della musica rock internazionale».

Cucinare ha molto a che fare con la creatività, crede che il ruolo dello chef abbia subito delle modifiche?
«Certo, oggi il cuoco è un fenomeno molto più complesso di quello di un tempo, ha dovuto adeguarsi a problematiche che riguardano sia gli aspetti economici sia quegli amministrativi. Intanto cominciamo col dire che il cuoco deve essere un ristoratore, e questo non lo dico da oggi lo dicevo già vent’anni fa, perché avevo già intuito allora che la ristorazione tradizionale stava morendo. E che cos’è la ristorazione? È come le maison di haute couture, è come Ferragamo, come Valentino, come Bulgari. Non perde tracciabilità perché si nasce artigiani e anche la ristorazione ha un suo artigianato. Noi siamo artigiani, compriamo la farina, le uova ci mettiamo l’acqua e facciamo la pasta. Purtroppo però qualcuno la pensa in altro modo. Ma oggi il cuoco deve essere anche imprenditore. Io non rinnego la divisa, la metto quando serve, ma oggi il cuoco si trova sempre più spesso a dibattere in convegni in tavole rotonde. Dirò di più. Senza offesa, forse oggi un ristoratore può avere qualcosa da insegnare a un assessore per quanto riguarda la promozione di una economia diffusa. Nel mio ristorante all’interno del Palazzo delle Esposizioni, sono un imprenditore, ho 60 dipendenti, e ho ben chiare quali possono essere le esigenze e le strategie di una ristorazione all’interno di un museo che fa cultura, e che si deve confrontare con questa realtà coniugando l’interesse dell’imprenditore privato, con quello dei cittadini e delle istituzioni. L’idea imprenditoriale è alla base anche del Resort di Vallefredda, dove la ristorazione si fonde con l’arte, con il benessere, con il design, con il lusso. In un unico spazio, infatti, convivono un ristorante gourmet, una SPA, una galleria d’arte, un orto giardino e dodici suite immerse nel verde. Bisogna creare nuovi modelli per il nostro settore per favorire tutte quelle aziende che vogliono investire nella ristorazione. Per questo che ho deciso di creare il primo Master in Restaurant Management e Marketing, perché oltre che a cucinare, a creare e a sperimentare, oggi uno chef, un cuoco, deve imparare a creare e a gestire la sua attività, in ogni suo aspetto, dal rapporto con i fornitori o con i dipendenti, alla comunicazione e al marketing. Ad essere anche un manager, insomma»

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