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Autoritratto, epidermide, ambiguità, erotismo: Roberto de Pinto si racconta
Personaggi
Io che ti guardo nascosto e commosso: è l’artista pugliese Roberto de Pinto (Terlizzi, 1996) il decimo artista ospite di IN PRATICA, il progetto della Fondazione Giuseppe Iannaccone che dal 2023 espone e valorizza i lavori di giovani artisti in dialogo con l’ampio corpo di opere della collezione, impegnandosi nella ricerca e nella promozione degli emergenti. Fino al 14 febbraio 2025, la mostra si snoda negli uffici e sale dello Studio Legale Iannaccone e Associati in corso Matteotti a Milano, con la cura di Daniele Fenaroli. Il titolo del format si ispira al percorso formativo e professionale che i giovani praticanti avvocati intraprendono per costruire la propria carriera, che come la pratica artistica ha bisogno di maturare e confrontarsi con le scritture dei maestri e le istanze del contemporaneo, con le immagini di presente e passato.
Roberto de Pinto costruisce un confronto dialogico diretto con alcuni pezzi della collezione, da lui scelti per continuità emotiva e tematica con i suoi soggetti. Una pittura vulnerabile e sensuale, ambigue ed erotica, il cui l’artista si autoritrae ed esplora sguardi nascosti, corpi e commozioni, con una resa attenta alle sensazioni tattili e olfattive in dettagli come epidermide e peli. È de Pinto a raccontarci l’inizio della collaborazione, la sua pratica, paure e desideri.
Come è avvenuto l’incontro tra te e Fondazione Iannaccone?
«Fu durante la mia prima mostra Tre modi per dire la stessa cosa, collettiva con Martina Cassatella ed Emilio Gola (curata da Antonio Grulli ad ArtNoble nel 2022) che conobbi Daniele Fenaroli, il quale insieme a Giuseppe Iannaccone ha continuato a seguire l’evoluzione del mio lavoro, proponendomi di partecipare a IN PRATICA. Il progetto è pensato come un dialogo tra i miei lavori e alcuni pezzi della collezione da me scelti, tra cui Il Suonatore di flauto di Filippo de Pisis del 1940, Beasley Street di Nicole Eisenman dei 2007 e il più recente Reclining nude di Dana Schutz del 2002, tutti lavori accomunati dalla presenza di un corpo desiderante, solitario, forse prigioniero delle sue incapacità e distrazioni. Trovo curioso come alcune opere si siano chiamate a vicenda in maniera naturale. È successo per il mio lavoro Più volte toccato e le due fotografie sovradipinte di Luigi Ontani, scelte in fase di allestimento, dopo aver notato che parlavano di cose simili ma con linguaggi diversi. Ed è successo anche per una carta a monotipo intitolata Toccarsi, che rispondeva alla chiamata del bellissimo ed esplicitissimo acquerello di Lisa Yuskavage.»
Raccontaci della tua tecnica pittorica e del processo creativo. Da cosa inizia tutto?
«Lavoro nel mio studio, spazio intimo e raccolto. È il materiale che uso a chiedermi di dipingere e presentare il corpo, la pelle e la carne sulla tela. Gli strati di cera ricordano la consistenza dell’epidermide, di per sé trasparente ma arrossata quando è attaccata al nostro corpo. Lavoro principalmente a encausto a freddo, mescolando cera e pigmenti grazie ai quali alterno trasparenze a stratificazioni coprenti. La base del quadro a encausto ha una finitura molto particolare, quasi vellutata, irriproducibile con altri materiali. Realizzo poi dettagli e parti più minuziose con matite colorate e pastelli. Parte fondamentale dei miei lavori su carta sono le ditate di carboncino che le mie mani lasciano sul supporto, testimonianza di un corpo con un suo peso che si muove e si aggrappa dietro ogni segno. Quando inizio a riportare la bozza sulla tela, ricorro qualche volta a una rapida occhiata allo specchio, che si trova in un’altra stanza. Solo alla fine aggiungo i dettagli, peli ed elementi naturali che sono spesso le parti che danno un risvolto intimista al quadro.»
Io che ti guardo nascosto e commosso, un titolo poetico ed evocativo, che racconta un frammento personale della tua sensibilità. Perché questa scelta?
«Prima di essere il titolo della mostra, è il titolo di un quadro che negli spazi della Fondazione era in dialogo accanto alla tela di Dana Schutz, Reclining nude. Tutte le mie opere sono nate dallo studio e dall’interpretazione delle opere della Collezione: l’idea era quella di affiancare lo sguardo di un pittore a un modello già in posa, come nel Frank di Schutz, per una copia dal vero. Non dipingendo con l’aiuto di un modello spesso mi chiedo a cosa pensi un pittore mentre dipinge i corpi e i volti degli altri. Sono stato suggestionato dai racconti di De Pisis nel suo Marchesino pittore, in cui gli incontri dei suoi modelli pescati per strada spesso coincideva con incontri amorosi. Ho immaginato, forse mi innamorerei anche io, ma non mi dichiarerei per timidezza e pudore lasciando i miei pensieri inespressi, “nascosti” appunto. il mio volto mi tradirebbe e diventerebbe rosso, i miei occhi inizierebbero a lacrimare… Di qui il titolo, che credo abbia molto a che fare con ognuno di noi e con le nostre incontrollabili reazioni quando guardiamo le cose del mondo. Io che ti guardo nascosto e commosso è anche l’atto (che ho) di guardare e studiare in silenzio le opere e gli artisti più grandi delle generazioni precedenti, “rubando” lezioni dai lavori che (mi) provocano un movimento interno, anche soltanto un prurito alle dita.»
Cosa della pittura e dell’arte ti commuove, cosa ti spaventa? Come prendono forma il desiderio, il rimpianto e la frustrazione?
«Recentemente? Direi le Pinturas Negras di Goya e i quadri di Velasquez al Prado, mentre tempo fa i ritratti del Moroni esposti alle Gallerie d’Italia o le grandi tele di Cucchi e Clemente alla Collezione Maramotti. Mi commuovono i pittori dalla forte riconoscibilità e personalità, forse perché parlano la mia stessa lingua e mi è più naturale capirla. È successo anche mentre leggevo le parole di de Pisis nel Marchesino pittore, nelle cui righe mi sono a tratti rivisto… Mi spaventa non avere più nulla da dipingere. Desiderio, rimpianto e frustrazione…tutto diviene parte di una narrazione pittorica.»
Quale la poetica che lega i grandi lavori che vedo esposti?
«Avendo avuto la possibilità di attingere da un’intera collezione di opere meravigliose, mi sono accorto di essermi concentrato principalmente sulla pittura dalla forte presenza di figurazione umana: ritratti, autoritratti e scene. L’input principale è arrivato dal quadro di Nicole Einseman, una grande tela dove, tra tutti i personaggi in strada, quelli che più mi interessavano erano il pittore con la sua modella affacciati alla finestra di un interno illuminato. Il discorso parte da quella finestra: non ho fatto altro che entrare nel mio studio, dove modello e artista sono la stessa persona, la quale su ogni tela riveste uno dei due ruoli in maniera ben distinta, e iniziare. Il filo conduttore è questo, seminare indizi di un modello in posa, che si fa ammirare e toccare dal pittore, e con le mani sporche lascia impronte sulla pelle, alimentando il dubbio in chi guarda su che tipo di contatto ci sia stato tra i due.»
Sei il modello delle tue stesse figurazioni, in cui ti esponi e ti sveli. Un alter-ego di se stessi: necessità, piacere o alibi?
«Tra le tre, è forse più una necessità di indagine introspettiva. Questo perché il mio alter ego si trova ritratto e narrato in situazioni che non vivo, ha un coraggio e una disinvoltura che io non dimostro. È il pretesto per mettere in scena un corpo, ed è il mio perché è quello che conosco un po’ meglio, oltre ad essere sempre alla “portata di specchio”. La pittura per me è esigenza di capire, di mettermi nei panni di un altro personaggio, di altro da me.»
Due parole in merito alla pubblicazione di Allemandi in occasione dell’opening?
«Assieme alla Fondazione abbiamo pensato di accompagnare il progetto da un libro d’artista, all’interno del quale sono presenti un dialogo tra me Daniele Fenaroli, Caterina Fatta e Antonio Grulli, il critico che più conosce me e il mio lavoro, oltre a un bel testo di Massimiliano Coccia. Volendo portare il senso della mostra anche tra le pagine, ai testi e alle immagini dei lavori esposti si alternano disegni a carboncino pieni di ditate. Anche la copertina è “sporcata” da impronte, come se tutto il libro fosse un taccuino di appunti e schizzi direttamente proveniente dal tavolo del mio studio.»