19 dicembre 2008

BIENNALE FELIX

 
Ha solo ventuno anni, ma è già stato nominato curatore della Biennale di Bucarest. Alle sue spalle due libri e il progetto itinerante 100 Dutch Minutes. Felix Vogel ha le idee chiare e ci parla del suo concetto di Europa e del tema portante della prossima edizione della rassegna...

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È ormai banale parlare della proliferazione di biennali nel mondo. Pensa che questo medium funzioni ancora, e che Bucarest ne abbia bisogno?
È ancora molto potente ed efficace. Di certo ci sono molte altre modalità per presentare arte contemporanea, ed è necessario chiedersi quale sia la specificità di ogni singola biennale. Però una mostra del genere può essere preparata in due anni, e con più risorse. Nel caso di Bucarest credo che la biennale sia una necessità, in quanto praticamente non ci sono spazi o istituzioni per l’arte. C’è il Museo Nazionale di Arte Contemporanea, ma è un posto anomalo e non molto attivo. Poi ci sono alcune piccole gallerie commerciali, ma non c’è nulla che si stia davvero prendendo cura dell’arte contemporanea, sia locale che internazionale. La Biennale di Bucarest si propone di creare una piattaforma per questo tipo di discorso e in questa situazione il medium può essere molto produttivo. Se parliamo invece di città con una vita artistica più vivace, allora è un altro discorso, e in alcuni casi una biennale rischia di assumere semplicemente il ruolo di attrazione turistica.

Il tema della sua biennale si baserà su un termine tedesco, Handlung, difficile da tradurre integralmente…
Il titolo completo è Handlung. On producing possibilities. Questa parola tedesca è connotata in modo molto complesso. Vuol dire qualcosa come azione, atto, partecipazione. Ma, per la sua ambiguità, può significare allo stesso tempo storia, trama, successione o narrazione. Quello da cui voglio partire è proprio lo spazio fra questi due concetti: cosa accade sulla soglia fra storia e partecipazione? È molto interessante esaminare quali differenti modalità di partecipazione sono proposte oggi attraverso l’arte, e quale tipo di narrazione viene generata. Non ho ancora terminato la stesura del concept, ma quello che voglio fare è entrare concretamente nella sfera pubblica, produrre qualcosa per lo spazio pubblico. Credo che il termine Handlung sia importante in questo senso. La società, la vita, la struttura urbana e in generale tutto ciò che ci circonda sono in qualche modo tutte strutturate attraverso Handlungen, azioni. Ma queste comprendono anche una sorta di narrazione, e dei momenti poetici.

Felix Vogel - photo Felix GrünschlossQuindi uno degli scopi sarà quello di esplorare le possibilità dell’arte nello spazio pubblico…
Esatto. Perlomeno, è quello che sto progettando di fare, oltre a essere uno dei principali obiettivi della mia ricerca. Trovo la città di Bucarest molto interessante, anche per quanto riguarda il modo in cui la struttura urbana può accogliere interventi artistici. Lo spazio pubblico ha un significato molto differente rispetto a quello di altre città, in quanto è rapidamente passato da un impianto comunista a un cityscape ipercapitalista. Al posto delle statue di Lenin e di piazze quadrate ora ci sono stazioni di servizio ed enormi insegne al neon che pubblicizzano birre. Ha avuto luogo una trasformazione radicale, e ciò si nota anche osservando gli edifici che sono stati demoliti e ricostruiti: orrendi grattacieli per uffici stanno sorgendo proprio di fianco a condomini in stile comunista, che a loro volta erano stati edificati vicino a chiese del Seicento. Credo che queste situazioni anomale possano essere molto efficaci per opere che intendano intervenire sulla città.

In un contesto storicamente complicato come quello di Bucarest, è interessante parlare d’Europa. La sua biennale proporrà un’idea di Europa?
Continuo a considerarmi uno dei pochissimi euro-ottimisti. Ho ancora questa idea secondo cui possono esserci un’identità e una collettività europea. Penso che l’arte produca un tipo di comunicazione che opera attraverso i confini, in quanto enfatizza similarità e differenze. Può essere parte di un dialogo fra diversi scenari culturali che con tutta probabilità non sono poi così dissimili fra loro. L’arte, e le biennali in Europa, possono avere un impatto molto positivo sul nostro modo di pensare. La mia idea per la Biennale di Bucarest si focalizzerà su questo, proponendo qualcosa che non sia solamente basato su valori nazionali. Personalmente mi spingerei ancora più avanti: forse è necessario parlare di identità cosmopolita piuttosto che europea. Se parliamo solo di Europa, stiamo già escludendo molte altre persone, ad esempio tutti gli immigrati dall’Africa o dall’Asia. Di sicuro l’idea di inclusione è già presente nell’identità europea, però io preferirei superare questi concetti di nazione o continente.

La Biennale di Bucarest è sempre stata molto attenta al rapporto fra locale e globale. Potrebbe parlarci di questo aspetto?
Prendendo Bucarest come cornice della mostra, mi concentrerò sul locale, cioè sul contesto politico e sociale della città, ma non vuol dire che lavorerò solamente con artisti rumeni. Parlare di “globale”, viceversa, non vuol dire lavorare soltanto con stranieri. Ovviamente farò entrambe le cose, ma prendendo ambedue i termini in maniera diversa. Il contesto locale è molto complesso, e potrebbe essere difficile da comprendere per artisti che provengono da fuori. Allo stesso tempo, voglio confrontare questo contesto con idee e progetti che abbiano un respiro universale. Non si tratta solamente di promuovere artisti rumeni all’estero, ma anche di creare una piattaforma per l’arte rumena all’interno della Romania stessa, visto che ancora non c’è. Oggi, la maggior parte di queste biennali si concentrano troppo sul livello globale, e credo che questo sia uno dei loro problemi. Vengono fatte le stesse cose a Shanghai, Istanbul, Mosca o Venezia, con la stessa manciata di artisti internazionali, gli stessi lavori e la stessa maniera di pensare. Quello di cui sento la mancanza è una coscienza del contesto locale; una coscienza della località, che non è il termine opposto a globalità, ma qualcosa con cui può coesistere.
L’ipermercato nel quale è stata trasformata una struttura comunista - photo Razvan Ion & Eugen Radescu
Il concept afferma che i partecipanti proverranno da diversi campi, non solo artistici. L’interdisciplinarità è quindi un modo di “produrre possibilità”?

Credo di sì. Perché se ci si concentra solamente su artisti e su progetti artistici in senso stretto, non si è molto lontani da un concetto elitario di mostra, o perlomeno museale. Penso sempre che sia più efficace coinvolgere persone da altri campi. Per esempio, sono in contatto con diversi architetti e urbanisti, che hanno una consapevolezza e una percezione dello spazio pubblico differente dagli artisti.

Lei ha lavorato anche all’edizione della Biennale di quest’anno, terminata a fine luglio. Com’è andata?

Molto bene: abbiamo avuto molti più visitatori del previsto. Come tutte le edizioni precedenti, anche questa è stata molto impegnata politicamente. Credo sia venuta fuori una mostra bella, precisa e ben posizionata nella città, in luoghi interessanti. La selezione degli spazi in effetti è sempre stata molto importante: non vengono mai utilizzate strutture museali o white cube, c’è sempre una grande consapevolezza della loro storia e della loro posizione. Per esempio, alcuni artisti hanno fatto degli interventi nel Museo di Geologia. Le gallerie coinvolte, inoltre, non sono commerciali ma fanno parte dell’“Uniunea Artistilor Plastici” (Unione Artisti Plastici), una sorta di struttura comunista che sopravvive dall’era di Ceausescu. Ciò che di solito vi viene esposto è una specie di realismo socialista: in questa occasione è stata presentata per la prima volta dell’arte contemporanea.

Cosa cambierà?
Non c’è niente che mi ha deluso nella Biennale di quest’anno. Vorrei spingere più in là la produzione di progetti nello spazio pubblico. Questo non è avvenuto in questa edizione, fatta eccezione per due lavori. Vorrei davvero concentrarmi su questo. Inoltre, la Biennale che curerò sarà basata su un altro concept. Alla fine verrà fuori una cosa completamente diversa, ma per ora tutto è ancora troppo astratto.
Felix Vogel
Lei sarà il più giovane curatore di una biennale di tutti i tempi. Come ha fatto?

Come ho fatto? Buona domanda! Forse, in senso positivo, dipende dalla mia mancanza di vincoli. Non faccio parte di strutture o di istituzioni; non sono così inserito nella rete come lo sono gli altri curatori di biennali. Questo si riallaccia a quello che stavo criticando prima: alcuni curatori fanno tutte le volte la stessa cosa, in tutto il mondo. Credo che questa sia una delle ragioni per cui hanno nominato me: perché ho un punto di vista più o meno fresco, diverso. Ma allo stesso tempo ho lavorato con il team di “Pavilion magazine” e con la Biennale di Bucarest per tre anni ormai. Vivo per la maggior parte del tempo in Germania, ma conosco Bucarest abbastanza bene. Sono allo stesso tempo molto al di fuori del sistema, ma già parte di esso. Penso vogliano rendere produttivi la mia mancanza di legami e il mio “essere nuovo”. Ed è quello su cui sto lavorando anch’io.

Quindi il suo “essere nuovo” le dà più libertà?
Sì, lo spero. A volte penso che, quando lavori da anni, hai necessariamente così tante relazioni personali che sei obbligato a giustificarne molte. Devi soddisfare quel critico, quel curatore, quegli artisti, quelle gallerie, eccetera. Non sto parlando in generale, però si tratta di qualcosa che si percepisce frequentemente in queste grandi mostre. Io penso di non essere ancora troppo, diciamo, contaminato da questo. E ho, come tu dici, più libertà per fare quello che voglio, e per provare.

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a cura di riccardo giacconi


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 53. Te l’eri perso? Abbonati!

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