Leone d’Oro alla Carriera della 58th Biennale d’Arte di Venezia per la sua arte “critica, divertente e profondamente umanistica”. Visual Artist, performer, poeta, saggista e attivista. Lo abbiamo incontrato a Milano per la presentazione di Labinac – collettivo di design di base a Berlino fondato con la compagna Maria Thereza Alves – nel 2018. Jimmie Durham (Washington, Arkansas, 1940) desidera rimanere “homeless”, vivere ovunque e da nessuna parte simultaneamente.
Perché i materiali sono così importanti nel suo lavoro?
«Io penso che sia perché il mio cervello non è bravo nel pensiero astratto. Avrei sempre voluto essere un artista concettuale, ma non avevo concetti. Fin dall’infanzia ho costruito cose perché tutta la mia famiglia lo faceva continuamente. Era povera, ma molto talentuosa. Conosco il mondo attraverso i materiali, senza sceglierne alcuno, mai. Semplicemente vivo e le cose si avvicinano. Un bellissimo pezzo di granito mi parla. Accade ogni volta. Non ho mai immaginato di creare un’opera d’arte dal mio stesso pensiero; non ho mai un piano prima della fine. Mi considero ugualmente uno scultore, è che scolpisco solo quello che appare davanti a me. La maggior parte dei materiali è troppo valida e magica. Devo sempre stare attento, ma nella mia mente il vetro rivela la sua energia solo quando è rotto».
Jimmie Durham, Un momento tranquillo, 1993, 2006, pelle di squalo, metallo, legno, plastica, fotografia, Collezione Maurizio Morra Greco, Napoli. In comodato a Madre museo d’arte contemporanea donnaregina, Napoli. Courtesy l’artista & Collezione Maurizio Morra Greco, Napoli
Si considera ancora un “Interventionist”?
«Penso di esserlo perché quando la narrazione dell’arte va avanti a qualunque costo, è sempre strano. Il mio desiderio è di fare “arte poetica” per le persone più intelligenti. Non che io sappia chi siano – ha poco a che vedere con l’educazione – o che mi consideri brillante. Voglio provare ad approcciare queste intelligenze e dedicarmi a qualcosa di più grande di me stesso. C’è un’idea mistica sufi che mi piace tantissimo: se puoi creare una bella canzone, sicuramente questa proviene da Dio (che non è solo il dio musulmano!), da dove altro potrebbe venire? È un grande esempio di libertà per l’umanità. Anche i sufi sono sempre stati interventisti».
Lei “Al centro del mondo”, con la sua prima retrospettiva in Nord America nel 2017?
«At the Center of the World è il titolo di una poesia che ho scritto (1995). Alla curatrice Anne Ellegood del Hammer Museum di Los Angeles, dove la mostra è iniziata, piacque molto. Abbiamo questa idea cherokee per cui esistono sette direzioni verso cui guardare: est, ovest, nord, sud, sopra, sotto, e dentro. C’è un altro detto, questo di mio zio: se una metà del mondo è davanti a me e l’altra metà dietro di me, significa che io sono al centro del mondo. Per questo decisi di vivere negli anni ‘70 a New York. Mi sembra ovvio che il centro delle cose sia una cosa variabile. Non però il centro dell’universo, che ho visto con Maria Thereza a Roma in una pianta di bouganville. Ma per il “movimento dei nativi americani”, ciascuno di noi è il centro con la sua specifica responsabilità verso le cose».
Jimmie Durham, Wood, Stone And Friends, 2012. Installazione (dettaglio). Courtesy the Artist. Foto di Amedeo Benestante
Che cosa ne pensa delle polemiche riguardo alle sue origini “non cherokee”?
«L’idea di identità e autenticità è piuttosto infruttuosa e senza senso. Tutti pensano che negli anni ‘70 gli indiani americani, i neri, le minoranze lottassero per la propria identità. Invece era per la libertà, l’uguaglianza, il diritto all’educazione. Negli anni ’80, io e Maria Thereza facevamo parte a New York di un gruppo di artisti “minoritari” (Foundation for the Community of Artists) che si impegnavano nel mondo reale cercando spazi per esporre e per curare mostre. Solo questo ci interessava».
Che cos’è il progetto Labinac?
«Il nome Labinac è un’idea molto spietata. Maria Thereza è di origini guaranì e ogni anno va a trovare diverse comunità locali. In tutto il Brasile c’è uno stupido razzismo per cui gli indigeni sono considerati antropofagi, quindi abbiamo deciso di scrivere al contrario la parola “cannibal”. Il progetto è iniziato perché abbiamo sempre fatto cose insieme e anche separatamente. Lei, fino a qualche anno fa, confezionava i miei vestiti. Io, invece, da quando la conosco, realizzo ad ogni suo compleanno una collana. Siamo sempre stati molto poveri, fino a dieci anni fa, e abbiamo vissuto in posti differenti – sono quarantatuno anni che viaggiamo – costruendo i nostri stessi mobili. Il mondo dell’arte è troppo imprevedibile per dovergli dipendere, così cerchiamo di realizzare cose che ci riescono bene e che possano dare a tutti, specialmente a noi, energia e magari un’entrata economica più stabile. Non è ancora successo, ma spero che accada. Ci sono un sacco di cose meravigliose nel mondo».
Petra Chiodi