Lui è l’artista che ha appeso per un piede a testa in giù Silvio Berlusconi, che ha fatto sporgere da un bidone di petrolio la faccia del presiedente americano, che copre le nudità con una bandiera europea, che ha abbracciato con una corona di dollari la croce. Quella di Jota Castro – nato in Perù nel ’69– è un’arte in cui la riflessione sociale si intreccia con quella politica. Del resto la sua carriera d’artista è stata la diretta conseguenza del suo impegno come diplomatico. Un passaggio per lui naturale, perché l’arte è forse l’unico strumento rimasto in grado di spingere a pensare. E’ dedicato alla situazione cecena l’ultimo progetto di Castro, la Emergency Biennale, che cura insieme a Evelyne Jouanno e che ha portato in Italia, a Bolzano, in ottobre, con le opere di quasi settanta artisti, tutti i lavori stipati nella sua valigia per Grozny.
Jota, ti senti un artista?
Sono un artista. Faccio l’artista dalla mattina alla sera. E sogno l’arte! Alcune volte può essere un po’ troppo, diventa un’ossessione. Come chiamate voi la gente che fa opere d’arte e che espone queste opere in una mostra?
In questa biennale ti presenti come curatore. Che ruolo hai in questo progetto?
Per la Emergency Biennale ho lavorato in collaborazione con Evelyne Jouanno: l’abbiamo ideata insieme. Evelyne era stata chiamata a curare una mostra a Mosca collegata con la Biennale di Mosca e io ero uno degli artisti invitati. Per alcuni problemi la mostra non è stata più realizzata. Così lei mi chiamò per spiegarmi quello che era successo -una gran confusione- e disse che “sarebbe stato più facile organizzare una biennale in Cecenia!”. Questa frase mi è rimasta in testa e ho iniziato a pensarci: la maggior parte del mio lavoro è basata sulle notizie del mondo in cui viviamo e la situazione in Cecenia è un problema a me molto caro.
Il progetto è partito da Parigi…
Si, in quel momento, nel gennaio 2005, ero impegnato a preparare la mia mostra personale al Palais de Tokyo e avevo contattato il Fidh – International Federation of human rights perché stavo preparando per l’opening una performance –dal titolo Discrimination Day– collegata al problema dei diritti umani. A quel punto pensai che sarebbe stata una bella idea fare qualcosa con Evelyne Jouanno. Così l’ho richiamata e le ho detto “Facciamolo!”.
Nel giro di pochi giorni abbiamo lavorato insieme sulle idee di base, definendo i concetti importanti e i dettagli. Ogni cosa poi si è formata velocemente. Abbiamo contattato gli artisti, Evelyne si è impegnata molto per spiegare a loro tutto, abbiamo organizzato la mostra a Parigi, parlato al Fidh riguardo al viaggio della nostra valigia a Grozny, contattato i rifugiati ceceni e svariate personalità, organizzato il trasporto delle numerose opere. La Emergency Biennale è il frutto di un lavoro in team davvero impegnativo. E’ la Biennale più giovane, la più folle e la meno costosa. Dopo la mostra a Parigi, ho proposto ad Evelyne di proseguire con un touring project.
Perché hai chiesto ad altri artisti di lavorare sull’idea di emergenza?
Non avevamo molto tempo. La biennale è stata organizzata in una velocità che potremmo definire d’emergenza. Inoltre la situazione in Cecenia era ed è ancora un’emergenza, così usare questo titolo è sembrato logico. Alle volte gli artisti, proprio come chiunque altro, devono saper reagire velocemente.
Per il catalogo della biennale vorresti avere saggi di critica d’arte e altri sui diritti umani. Questa biennale è sull’arte o sui problemi di oggi?
Entrambe le cose! Gli artisti vivono nello stesso mondo in cui vivi tu, la realtà è la stessa. Per te e per me. La sola differenza potrebbe essere il modo in cui noi interpretiamo questa realtà e il significato che gli diamo. Il libro che vogliamo realizzare non è un libro da leggere al tavolino di un bar bevendo un caffè, vuole aiutare la gente a capire e a riflettere su un problema.
E’ arte politica? Possiamo usare questa definizione per te e per gli artisti invitati?
Certo, perché no. Ma è difficile usare la stessa definizione per settanta artisti. Per quanto mi riguarda, si tratta effettivamente di politica. E’ così difficile lavorare sulla Cecenia senza parlare delle ragioni storiche che sono dietro a questa situazione, senza parlare di politica. E’ davvero impossibile. Come fare l’amore da soli.
Ma può l’arte non riferirsi al presente?
Secondo il mio modo di pensare, no. Lascia che mi spieghi. Al giorno d’oggi abbiamo la possibilità di essere informati, in un modo giusto o sbagliato. Noi siamo la prima generazione che ha il reale accesso all’informazione. E l’interpretazione dell’informazione è potere. Noi dobbiamo lavorare su questo dato di fatto.
Perché hai deciso di mandare il tuo bagaglio d’arte a Grozny?
All’inizio volevamo organizzare la biennale a Grozny. Ma la terribile situazione che c’è lì ha reso la cosa impossibile. Così abbiamo inventato l’idea della valigia. E’ un’allusione alla valigia diplomatica, alle attività di contrabbando che si fanno in tempo di guerra. La nostra valigia è quella che la gente usa per spedire cibo, messaggi strategici o armi. La nostra valigia è quella dei rifugiati.
Le opere che mandiamo a Grozny sono un regalo per la gente cecena. Questa è la vera ragione per cui abbiamo chiesto agli artisti di mandare due copie del loro lavoro: una è offerta e mostrata in Cecenia, l’altra sarà parte del progetto itinerante. Parlo di mostre al plurale perché i lavori sono stati inviati in modo graduale e mostrati in differenti occasioni e luoghi a Grozny.
Come hanno risposto gli artisti?
Alcuni di loro con un po’ di sorpresa. Il concetto della Emergency Biennale è poco sentito. Ad ogni modo, molti di loro sono stati entusiasti e generosi. Questo prova che gli artisti sono interessati alla “vita reale” e che ci esistono nuovi modi di mostrare l’arte.
Cosa hai mostrato qui in Italia, a Bolzano?
Molti buoni lavori. Più di sessanta artisti, da cinque continenti. Le opere sono spesso di piccole dimensioni e ci sono molti video. Il lavoro proposto deve stare in una valigia, e non può essere molto grande. La nostra è una biennale che può stare in un metro cubo. Per il resto è come una vera biennale: ci sono artisti famosi, alcuni giovani emergenti, alcuni nomi trendy. Ma fondamentalmente è tutta brava gente.
Quanto è importante il prodotto d’arte, il prodotto che va mostrato nelle gallerie private e venduto nelle fiere?
E’ evidente che per questo progetto il concetto e più importante dell’oggetto. Il punto focale della mostra è parlare della Cecenia. A parte questo, gli artisti, come tutti gli altri, devono mangiare e pagare il loro affitto e devono vivere vendendo le loro opere. E questo è, credo, un modo di vivere assolutamente rispettabile.
Hai chiamato il progetto “biennale” perché avrà un seguito? Oppure solo per porti in contrasto con l’attuale proliferazione di biennali?
Entrambe le cose. Può e deve evolvere e adattarsi all’attualità. E attualmente è la mia religione.
In che modo questa biennale è differente dalle altre?
In tutto. L’ho organizzata in due settimane. Non ci sono soldi che la finanziano, è la biennale più economica mai esistita. Generalmente le biennali vengono pensate per essere testimonianze della modernità, come un’Esposizione Universale era la dimostrazione della modernità e della superiorità economica. La Emergency Biennale invece prova a usare l’arte per parlare di qualcosa che non sembra interessare molte persone ma è cruciale. Questa biennale parla dei crimini commessi contro l’umanità. Crimini perpetuati in una città distante quattro ore da Milano.
Ci saranno altre tappe in Italia?
Questo, al momento, non lo so. Avrò però un progetto personale la prossima primavera, a marzo, al Quarter di Firenze.
mariella rossi
*articolo pubblicato sul n. 26 di Exibart.onpaper
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Mi dispiace che abbiate considerato un artista come questo. Non fa onore al vostro sito e non lo propagherei a nessuno. Dovreste fare un minimo di selezione se davvero vi occupate di ARTE.
La politicsa non è arte e le cose ingiuriose da nessuna parte politica lo sono in assoluto. Sono davvero molto delusa delle vostre scelte.
l'arte non può essere politica, o meglio se si occupa del contingente finisce per essere cronaca, o comunque rischia di essere superata dalla storia.
Bravo questo artista, forse potrà dare una svegliata a tutti quelli che pensano che l'arte non é politica.
L'arte può essere politica, o non volerlo essere. Il concetto di arte oggi non dovrebbe più essere oggetto di connotazioni aut aut, è decisamente demodé solo il chiederselo. Si può esprimere il presente, così complesso, guardandolo da più prospettive, l'importante è che esprima. E Jota Castro è uno dei pochi che ancora vuole fortissimamente dare qualcosa allo spettatore, fregandosene del pericolo di strangolare l'immortalità della sua arte dal fatto di occuparsi della storia in atto. Intanto vive, e comunica, così come la sua opera. Non torniamo ai sonetti di Shakespeare, andiamo.....
chi è questa fessa?????