L’arte del sublime: intervista a Christo

di - 31 Maggio 2016
Solo due settimane, dal 18 giugno al 3 luglio, per percorrere e vivere tre chilometri che sono già storia: The Floating Piers è la straordinaria opera di Christo che fin dall’annuncio della sua realizzazione sta catalizzando l’attenzione non solo del mondo dell’arte, tanto da essere inclusa, da Lonely Planet, negli eventi imperdibili del 2016 a livello mondiale. Un’opera monumentale per dimensioni e complessità tecnica: una passerella galleggiante sulle acque del Lago d’Iseo che unisce Sulzano a Monte Isola e l’Isola di San Paolo. Che può ospitare quasi 18mila persone contemporaneamente e che è costata 15 milioni di euro, tutti provenienti dalla vendita delle opere dell’artista. Una visione, quella di far camminare i visitatori sull´acqua, nata nel 1969 dalla mente di Christo e Jeanne-Claude (venuta a mancare nel 2009), talmente ambiziosa e nuova da non ottenere per ben due volte, in luoghi diversi, i permessi per la realizzazione. Due anni fa il progetto, con una rinnovata identità data dalla nuova collocazione e da nuove tecnologie, fu accettato dai Comuni del lago e dopo un anno di febbrile lavoro vede ora la luce. Un’impresa realizzata grazie ad un team di tantissimi esperti, tutti capitanati da Christo, che con i suoi ottant’anni è un mito indiscusso della storia dell’arte. Lo abbiamo incontrato sul cantiere di The Floating Piers.

Cosa significa realizzare un’opera di queste proporzioni?

«Ci sono libri per costruire ponti, palazzi, ma nessuno sa come si possa fare The Floating Piers, ogni cosa va progettata e si devono escogitare soluzione tecniche spesso inedite: è per questo che le nostre opere sono uniche, grandi sfide, piene di punti critici, di difficoltà, di “se”. Per comprendere i nostri lavori bisogna allontanarsi dai concetti di pittura e scultura, le nostre opere hanno più similitudini con l’architettura e con l’urbanistica, dagli schizzi al processo di autorizzazioni che richiedono. Il Reichstag (1995) non ha avuto tante critiche dal mondo dell’arte, quanto da quello dell’architettura, perché era letta come una specie di nuova architettura. Abbiamo molti amici nel campo dell’architettura, ma la differenza principale è che i nostri lavori sono assolutamente non necessari, se non come opere d’arte. Esistono solo perché noi le abbiamo voluti, non hanno ragione d’esistere, il mondo può vivere senza. In questo senso la libertà è della massima importanza nel progetto, per questo ci autofinanziamo e non lavoriamo su commissione, per mantenere il controllo totale sul nostro lavoro».
Qual è la parte più importante di questo lavoro?
«Il progetto stesso, ci sono il soft period, la progettazione, e l’hard period, quando si devono risolvere le problematiche tecniche, organizzative e ottenere le autorizzazioni. L’opera d’arte esiste prima del progetto realizzativo, ogni opere attiva le sue dinamiche peculiari ancora prima di esistere. Noi realizziamo ogni opera soltanto una volta, perché quando sappiamo come costruirla, riproporla diventerebbe una ripetizione. Quando abbiamo realizzato Umbrellas (1991) in Giappone e in California, è stato come un progetto di urbanistica, come costruire delle case in una valle o in un villaggio. Over the River in Colorado, iniziata nel 1999 e non ancora conclusa per via delle autorizzazioni, è un’opera lunga 60 chilometri. È come costruire un’autostrada ed è necessario considerare tutto ciò che faceva parte di quel territorio e come la gente vive: le cose, i negozi, le case, le scuole, le chiese che c’erano. Il nostro lavoro deve considerare sempre la grande dinamicità degli elementi che entrano in gioco: anche per The Floating Piers, oltre alla parte organizzativa e realizzativa, c’è l’enorme lavoro di logistica per quando l’opera sarà aperta al pubblico, le dinamiche che comporterà, il traffico, le macchine, le persone che si muovono. Tutto ciò, di nuovo, ha a che fare con l’architettura, io ho studiato architettura, non scultura».

Che rapporto c’è tra l’opera e i suoi disegni?
«Il progetto non riguarda le illustrazioni, quelle che faccio io, che sono tutte realizzate prima della creazione del progetto reale, mai durante o dopo. Le nostre opere sono progetti fisici, disegnare è “a proposito” del progetto, lo stesso per le fotografie, i video, ma per 14 giorni, ad esempio c`è stato il Reichstag, a Berlino, l’opera reale, non immagini del Reichstag: l’opera è quella concreta, reale. Il mondo dell’arte è pieno di illustrazioni, schermi televisivi, fotografie, sono tutte illustrazioni, manca l’elemento reale. Qui ci sono tre chilometri di vero vento reale, vero sole, vera acqua, vera umidità, non è “a proposito” dell’umidità, è l’umidità reale. Tutto ciò è molto fisico e al visitatore è chiesto di gustare ciò o semplicemente e di accettare questa dimensione, ma ci sono persone che non amano stare all’aperto».
Le vostre opere prevedono movimento, esperienza fisica, da dove nasce questa scelta?
«Jaenne Claude e io siamo sempre stati molto portati alla fisicità, nel mio studio a Manhattan dipingo tutto io, non ho assistenti, non c’è l’ascensore, faccio 90 gradini molte volte al giorno, non amo stare seduto, mi piace muovermi. Io non so come aprire un computer, io non parlo al telefono perché non è come avere a che fare una persona presente, tutto ciò fa parte della mia sensibilità. Ecco perché il progetto è molto fisico, reale. È molto difficile da spiegare la patetica situazione del mondo di oggi, in cui ogni cosa si riduce ad uno schermo piatto, alla virtualità, è tutto completamente piatto, senza paure o pericoli reali. È rimasto poco di reale perché ciò che è reale è molto impegnativo, legato all’emozione. Un esempio: quando abbiamo realizzato il Reichstag, la stoffa doveva essere installata e non erano previste impalcature, così l’intero progetto fu realizzato da scalatori, la gente li vedeva calarsi dall’alto verso il basso e attraverso due aperture poteva osservare l’assenza delle impalcature. Finito il montaggio abbiamo chiuso le aperture, la gente camminava attorno al Parlamento, toccava e colpiva i teli. Normalmente non si vedono le persone camminare per strada e toccare gli edifici, è questo il punto della questione: l’opera è molto sensuale, molto invitante, entra in relazione con i sensi. In The Floating Piers il visitatore parte dalla terraferma, poi improvvisamente si ritrova a camminare sull’inatteso movimento dell’acqua, la sente nei piedi, il suo equilibrio improvvisamente si modifica perché non c’è più la superficie solida: tutto ciò fa parte di come l’opera entra in relazione fisica con te. Non a tutti piace questo. Il modo in cui si guarda a quell’opera, come la si percepisce è molto diverso dalla contemplazione, di una superficie piatta o di uno schermo, coinvolge una sfera sensoriale completamente differente».

In The Floating Piers torna l’elemento acqua, che con cui vi siete spesso confrontati nei vostri progetti, come racconta la mostra in corso ai Museo di Santa Giulia di Brescia The Water Projects.
«L’acqua è stata a lungo in relazione con i nostri progetti, di nuovo con i sensi, uno sbilanciamento: da una parte c’è la solidità della terra, delle rocce, e dall’altra la fluidità dell’acqua, li abbiamo fatti incontrare molte volte in molte opere: in Running Fence (1976), in California, la barriera di tessuto scompariva dentro l’oceano, mentre gli ombrelloni di Umbrellas in Giappone interagivano visivamente con l’acqua del fiume Sato. Entra in gioco anche qui la scala umana: il nostro corpo è in grandissima percentuale da elementi liquidi, noi umani siamo attratti dall’acqua in modo naturale».

Il Suo lavoro è stato interpretato come esempio di Land Art e spesso ci si riferisce a lei con uno dei più grandi land artist. Cosa ne pensa?
«Io non mi addentro in questioni teoretiche, le nostre opere sono sempre in spazi urbani o rurali, spazi in cui la gente vive, per noi è importante dare consapevolezza della scala dei progetti, ad esempio nelle aree rurali ci sono le case, i tralicci del telefono, i ponti che a noi servono per rendere le dimensioni dei progetti, che non si collocano semplicemente chissà dove senza relazione con la scala umana».
In un’intervista di qualche anno fa per Bloomberg ha detto che le sarebbe impossibile spiegare il significato dei suoi lavori, la pensa ancora così?
«Assolutamente, io non so dire cosa siano le nostre opere, innanzitutto perché io non sono un critico d’arte per dire che cosa un’opera d’arte significa per la gente, inoltre io non posso sapere cosa significhi per le persone. Io posso solo raccontare degli esempi di come le persone hanno vissuto le opere, come per Umbrellas, in Giappone e California, era come un immenso dittico da due parti opposte dell’oceano, che le persone hanno vissuto in modi molto simili, ma anche molto differenti: l’opera d’arte assorbe in sé ogni tipo di interpretazione, ne sono parte dell’opera. La grandezza dei nostri progetti è che ci sono molteplici interpretazioni e interazioni e sono tutte legittime».

Nonostante l’immenso sforzo di realizzazione, le sue opere durano poche settimane. Che rapporto ha con l’effimero?

«Il tempo è arbitrario, alcuni progetti sono durati solo 28 ore oppure altri tre settimane. Jeanne Claude diceva: “due settimane, cosi tutti posso venire a vedere?”. Sono sempre progetti stagionali, invernali o estivi, per esempio The Gates (2005), a New York, è stato un progetto inverale, perché noi volevamo la città molto viva, mentre The Floating Piers è estivo, perché volevamo avere le giornate di luce più lunghe dell’anno. Le decisioni estetiche poi devono seguire questi aspetti. Nel tempo abbiamo visto come i progetti attraggono l’unicità, i progetti attivano un loro pubblico che vuole essere presente, quasi “groupies”, e questo perché ogni essere umano al mondo è unico. Siamo bombardati da cose ripetitive ovunque nel mondo, da Walt Disney alle biennali, ma agli esseri umani piace essere presenti agli eventi unici, che accadono soltanto una volta durante la loro vita, questo perché ogni essere umano al mondo è unico, e questa unicità ci è molto cara. Ciascuno sa che questo progetto, dopo sedici giorni sarà passato per sempre, e questa fragilità, transitorietà e irripetibilità fa profondamente parte dell’esistenza di ciascuno».

Cosa spera che accada quando The Floating Piers sarà aperto al pubblico?

«La cosa più importante è che il progetto sia vissuto dalla gente, dire “farne esperienza” è troppo banale: penso alla gente che vive la vita di ogni giorno, che apre la porta di casa, va a Monte Isola a piedi anziché col traghetto, in modo molto consapevole e in relazione ad un tempo preciso. Abbiamo voluto una passerella con le estremità che digradano nell’acqua, quasi una spiaggia, mossa dal moto ondoso e con l’acqua delle onde che accarezza i bordi e bagna la stoffa che poi asciuga in fretta e cambia continuamente colore, dal rosso scuro all’oro generando macchie che mutano per chilometri e chilometri. The Floating Piers è stato disegnato in modo che invitasse a camminarci sopra e a viverlo, perché si tratta di uno spazi fisico che diviene anche un “tempo fisico”, non è come guardare un dipinto per due minuti e poi andarsene, è un lavoro fatto per essere percorso, non è possibile aprire un libro e guardalo in fotografia: è molto sensuale, devi coglierne il piacere ed entrare in relazione con questo spazio reale».

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