«Qui non mi piace, qui c’è rumore, poi vorrei un caffè. Ci spostiamo, che fa, mi segue lei?». Il primo incontro con Zaha Hadid non lo potrò mai dimenticare. Irresistibile capricciosa. Geniale rompiscatole. Scorbutica come pochi al mondo. Una che metteva alla prova il malcapitato giornalista, facendogli fare un po’ di gogna, forse per vedere se aveva fibra a tenerle testa. Quella mattina di uno dei primi giorni di marzo del 2001 ci spostammo almeno tre volte, da un salotto all’altro dell’hotel Raphael a un passo da piazza Navona (sì, l’hotel di Craxi) perché alla signora, che alloggiava in quell’albergo a dire il vero un po’ pacchiano, non andava mai bene la poltrona o il luogo o la luce o non so che altro dove ci trovavamo. E io, docilissima – perché questa è la sola strategia possibile con i geni capricciosi: assecondarli, poi dire pacatamente la propria e poi, se capiscono che chi hanno di fronte non è esattamente un imbecille, bene, altrimenti peggio per loro – la seguivo.
Ma dopo che i suoi svariati desiderata furono soddisfatti dai solerti collaboratori da cui non si separava mai, Zaha, la” babilonese”, come lei narcisiticamente amava definirsi (era nata a Baghdad nel 1950), cominciò a parlarmi del suo MAXXI. Erano anni bellissimi, quelli, a Roma. Pieni di futuro. Era nato da poco l’Auditorium di Renzo Piano, si favoleggiava della Nuvola di Fuksas, prima o poi ci sarebbe stata la nuova teca di Richard Meier per l’Ara Pacis, era partito il progetto del Macro firmato da Odile Decq. Roma era a una svolta, dopo anni di letargo, stava diventando contemporanea. Quando misi insieme tutte queste cose in un articolo, il mio caporedattore di allora lo intitolò: “Nuovi progetti per una città eterna”. E in questo grande cantiere di architettura, il MAXXI avrebbe fatto la sua parte. Anzi, con quel museo si stava costruendo un pezzo della nuova città, come spiegò a suo tempo Margherita Guccione, che con Zaha Hadid ha passato pazientemente anni ad immaginare, e soprattutto a realizzare il MAXXI di Roma. E forse è dipeso anche da quell’incontro il mio innamoramento per i musei.
Zaha Hadid lo raccontava e mi sembrava quasi di ascoltare una delle fiabe delle Mille e una notte. Linee fluttuanti, destrutturazione dell’edificio, della sua idea e della sua sostanza, permeabilità con il fuori, nonostante fosse fatto di cemento. «La mia formazione è quasi più da artista che da architetta. Sa che cos’è il Suprematismo? Io mi ispiro in parte ad esso». Sì, fortunatamente sapevo qualcosa. Riuscivo a seguire i suoi riferimenti iconici, artistici, soprattutto visionari. E lei a poco a poco si sciolse e divenne addirittura gentile! Continuava a raccontarmi il suo MAXXI, un’invenzione che avrebbe catturato la luce di Roma: «Ah, il cielo di questa città!». Un flusso di energia che non si sarebbe arrestato davanti a un ingresso o a un’uscita, inglobando tutto, senza distinzione di ambienti e piani e altre meschinerie.
Era sorprendentemente affascinante il suo museo. E chissenefregava, allora, se lei era nota soprattutto per immaginare luoghi bellissimi ma impraticabili e soprattutto irrealizzabili, perché nessuno riusciva a tradurre in progetti esecutivi i suoi disegni? Era una storia avvincente, il suo MAXXI. Non crederci, almeno allora, significava non avere cuore. Tornai a casa un po’ stanca ma felice, come si suol dire. Avevo avuto la fortuna di incontrare una superdonna. Un grande architetto, che alla fine mi aveva anche salutato con un bel sorriso, da acida e insopportabile com’era all’inizio e che soprattutto, di lì a cinque anni, avrebbe dato alla mia città un magnifico museo d’arte contemporanea.
Ci sbagliavamo tutti. Lei, forse, a fare un museo che per la Roma di allora, nonostante il “risveglio” di veltroniana memoria, era totalmente sovradimensionato, e non solo in termini di volumi, ma per il progetto di cui era portatore. Un museo che guardava troppo avanti, che smentiva l’idea stessa di museo in una città quasi digiuna anche di musei tradizionali come Roma. Non a caso, dieci anni dopo, quando il MAXXI fu realizzato, venne costruito solo la metà del progetto, che comunque, tra cantiere attivo e anni di stop, costò il doppio dei soldi previsti, diluiti, appunto, nel doppio degli anni previsti. Il MAXXI di Zaha Hadid, da aereo che doveva essere, nacque zoppo, ma alla fine nacque. E lei, la “babilonese” che a Roma ci era arrivata neanche famosissima e che in fondo, come è stato detto più volte, è cresciuta proprio qui, a Roma con il MAXXI, il primo dei suoi grandi progetti ad essere tradotto in termini esecutivi, era nel frattempo divenuta un archistar: la prima donna a ricevere nel 2004 il premio Pritzker (il Nobel dell’architettura) e insignita dello Stirling Prize nel 2010 e 2011. Abbiamo rischiato per un soffio di perdere anche questo treno: Zaha Hadid che, secondo il Time, era uno dei 100 personaggi più influenti del mondo, a Roma aveva lavorato al suo progetto più grande e ambizioso, un avveniristico museo, che però non apriva.
«Più grande, ma soprattutto più compiuto. Il MAXXI segna una svolta nel suo percorso, è un progetto urbano che rimescola le categorie di spazi istituzionali e spazi pubblici, di interno e esterno», spiega Margherita Guccione, direttore del MAXXI Architettura. «Quello che ha fatto dopo, sebbene più imponente come il museo di Baku, non ha la stessa risolutezza del MAXXI», aggiunge Guccione.
Oggi, a sei anni dalla sua apertura, lo guardiamo così il MAXXI, percorrerlo per me ogni volta è un’emozione e non ho mai condiviso le critiche, specie di alcuni artisti, sull’impossibilità di esporvi. È stato così anche per il Guggenheim di New York di F. L. Wright, attaccato proprio dagli artisti alla sua nascita nel 1959. È così per qualunque architettura di rottura che guarda avanti. «Ma questa è la cosa più bella che Zaha Hadid abbia fatto, anche con i suoi errori. Per esempio la piazza, quella che oggi si chiama piazza Alighiero Boetti, che lei non aveva previsto e che invece si è rivelata essere la cosa più riuscita del MAXXI», dice Pippo Ciorra, senior curator del MAXXI Architettura. Ma nel 2010, quando finalmente aprì, personalmente lo criticai quel museo, non perché fosse brutto (come poteva esserlo?) o perché non avesse una parte dritta (e allora? Sta agli artisti rilanciare, e anche ai curatori) ma per quello che esprimeva: un’astronave piovuta dal cielo, usata come fiore all’occhiello, e poi non difesa dalle istituzioni che pure l’avevano voluta. E che rendeva evidente anche in Italia, al pari di altre macchine delle meraviglie chiamate musei, che questi erano gli investimenti operati dalla politica sulla città per questioni di marketing urbano. Che insomma di progetto culturale c’era ben poco, di fronte al grande potere che in quegli anni aveva assunto la grande architettura come potente cassa di risonanza mediatica. E che curatori e responsabili del museo dovevano inventarselo, a partire da quel capolavoro di disegno.
«In realtà Zaha aveva visto quello che gli altri ancora non vedevano. Aveva immaginato un simile luogo per la creatività già nel ’98. E non ha mai derogato alla sua idea. Il ricordo a posteriori che mi rimane più forte è la sue integrità e coerenza, non ha mai mollato di una virgola sul suo progetto, anche a costo di litigate, scontri. E la qualità architettonica del MAXXI nasce proprio dal suo rigore», afferma Margherita Guccione. Una consapevolezza di aver fatto un lavoro di estrema importanza che la portò – altra cosa difficile da mandare giù – a chiedere, e a ottenere, di inaugurare il museo vuoto. Un gesto arrogante, sembrò a molti, per far vedere al mondo intero e, prima di tutto a noi romani, che quella era la vera opera e tutto il resto che vi sarebbe entrato dentro sarebbe stato necessariamente secondo ad essa.
Zaha Hadid, morta ieri a Miami per una crisi cardiaca, era anche questo. «Cosa ci mancherà, cosa mi mancherà di più di lei? La sua testa. Ho la chiara percezione di aver avuto accanto un genio. La perdita di una testa come la sua è un dolore profondo». Facciamo nostre queste parole di Margherita Guccione per salutare quella scorbutica geniale di nome Zaha. Ciao babilonese!
Adriana Polveroni
In alto: Zaha Hadid all’opening del MAXXI con l’allora Ministro ai Beni Culturali, Sandro Bondi