cijaru è un nuovo progetto di arte contemporanea pugliese, nato dalla collaborazione fra Francesco Scasciamacchia e Davide De Notarpietro.
Francesco Scasciamacchia approda a questo progetto da un dottorato in Studi Culturali e Critici alla Queen Mary University di Londra, e da un anno come Critical Studies Fellow dell’Independent Study Program del Whitney Museum of American Art a New York. Alle spalle un percorso poliedrico che fra le varie esperienze include quella come news editor di Flash Art, come Assistant Curator presso il Museo Jumex a Città del Messico e come Assistant Professor presso il dipartimento di Storia dell’arte e curatela della Universidad de las Americas a Puebla (MX).
Davide De Notarpietro viene invece da studi storico artistici a Firenze e da un’esperienza decennale come archivista e ricercatore alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano. Nel tempo si è interessato a studi per i restauri artistici e il censimento di manoscritti greco-bizantini – circolanti nel territorio Salentino e, in particolare, nel Monastero di San Nicola di Casole, a pochissimi chilometri sulla costa a sud di Otranto – conservati nella prestigiosa Biblioteca.
Li abbiamo intervistati per saperne di più di cijaru.it e non solo.
Come e quando è nata l’idea di dar vita a cijaru?
«A quasi circa due anni dalla fondazione del progetto fa strano pensare che cijaru sia nato in tempi pre-Covid, perché in realtà sembra quasi una risposta alla crisi, non solo sanitaria (come invece viene descritta dalla macchina mediatica). Un progetto che nasce semplicemente dal “mettere insieme” competenze, prima individuali (come quelle nostre) e poi collettive (come quelle delle maestranze del nostro territorio). In questo spirito di “legare”, “mettere insieme” singolarità e collettività in un intelletto generale del territorio nasce cijaru, un’esigenza di prendersi cura di noi stessi e del territorio. Un esercizio che nasce da una scelta di vita, quella di tornare per ripensare ai modelli di vita schizofrenici e ai linguaggi globali contemporanei.
Questo percorso “lento” e “lontano” ci ha permesso di fare quello che meglio di ogni altra cosa sappiamo fare, leggere, pensare e scrivere per circa un anno».
Quali sono gli obiettivi di cijaru e come intendete perseguirli?
«Ci piacerebbe molto che l’arte contemporanea non venisse percepita, come spesso avviene nel nostro territorio, o come un puro esercizio di stile articolato da chi, andato via per scelte professionali o di vita, decide di aprire una residenza “estiva” smontabile come gli ombrelloni che a settembre si chiudono; o invece come l’“evento brand” delle mostre blockbuster che popolano i nostri castelli, le nostre torri e i nostri palazzi, divenuti semplici contenitori o, come li definiscono, “attrattori culturali” messi a profitto solo in una logica di “turismo predatorio”. Il nostro approccio vuole restituire al pubblico (autoctono e non), un senso di bene comune, valorizzando il contenitore che diviene anche e soprattutto contenuto attraverso opere e discorsi context-specific. Da qui la scelta di recuperare stili e forme di vita come l’agricoltura e l’artigianato e, soprattutto, la storia in un momento in cui ci sembra ci sia un “vuoto storico” che produce un “nuovo azzerato” che mina lo stesso concetto di cultura nel senso di coltivare e curare.
L’idea è di costruire una narrazione mediterranea del Salento e della Puglia aprendo l’archivio storico per fermare e interrogare il presente. I modi saranno diversi, con un particolare focus su arte pubblica, riqualificazione urbana e dopo aver intessuto relazioni solide, equitative e rispettose speriamo in un progetto di socially-engaged art».
Voi debuttate con la mostra “Make This Earth Home”, ideata e concettualizzata dall’artista Maria D. Rapicavoli. Come è nata e come si articola?
«La mostra nasce grazie alla opportunità di “riempire” uno spazio culturale, o meglio come si diceva prima un famoso “contenitore”. Da qui abbiamo pensato come potevamo non ripetere quello a cui di solito assistevamo, e che non ci convinceva affatto: mostre “fenomeno” dal nome di richiamo che fosse sufficientemente brandizzato sia per i locali, sia per i turisti, ma che poco avevano a che fare con una narrazione del territorio o, all’opposto, con un estremo localismo dove l’arte veniva utilizzata in termini “decorativi” in monumenti storici o spazi pubblici.
Proprio da questo siamo partiti, pensando a come fosse possibile coniugare il contesto con uno sguardo internazionale non coloniale ma comunque “forestiero” che si prendesse cura di ciò che noi come locali diamo spesso per scontato. Poiché l’idea era quella di lavorare sulla storia transfrontaliera di Otranto per interrogare questo presente complesso di non accoglienza, abbiamo pensato di invitare un artista che fosse sensibile alla questione di terre di frontiera e che avesse il senso di cosa può significare sud come categoria geopolitica ma anche esistenziale.
Abbiamo allora deciso di invitare Maria a due settimane di esplorazione del territorio e dello spazio espositivo. Abbiamo “viaggiato” e “visitato” tanto, luoghi, storie, tradizioni, culture tutte coesistenti sullo stesso piano che si chiama Salento. Al suo diario di bordo che ha restituito il viaggio insieme, abbiamo fatto seguire una ricerca storico-artistica che riprendesse le fila delle rotte nel Canale d’Otranto dai tempi ancestrali della preistoria (volevamo partire dalle radici!), fino ai tempi della colonizzazione romana che ha tentato, molto spesso riuscendoci, di cancellare qualsiasi traccia orientale sul territorio. Dalla mappatura (tema caro a Maria) delle rotte, insieme alla collaborazione del cartapestaio leccese Mario Di Donfrancesco, di Giuseppe Colì per la terracotta e dell’impresa d’eccellenza della lavorazione della pietra leccese, Pimar Italian Limestone, nasce “Make This Earth Home”».
Prossimi progetti?
«Stiamo lavorando a un progetto di riqualificazione urbana e arte pubblica con il collettivo torinese a.titolo, dato il suo expertise ormai storico su questi temi in Italia. L’idea anche qui è nata da una proposta o, meglio, un desiderata di un sindaco illuminato di un piccolo comune della Grecìa Salentina che voleva pensare a un modo per riqualificare una zona di edilizia popolare 167b. Abbiamo subito pensato a un processo che partisse dal basso e che fosse inclusivo, ed è per questo che abbiamo invitato a.titolo e ci siamo proposti come “mediatori/collante” con il tessuto autoctono.
Ci piacerebbe molto che si rinnovi l’interesse del Comune di Otranto che di solito dà in affidamento la Torre Matta (che oggi ospita parte del progetto espositivo di Maria Rapicavoli, n.d.r.) per due anni, perché pensiamo che questo spazio possa vivere tutto l’anno anche a beneficio dei pochi, ma attivi, abitanti di Otranto. Abbiamo raccolto molte voci a sostegno di una decentralizzazione e destagionalizzazione da parte dei cittadini/fruitori. In cantiere rimangono bandi “sospesi” che apriranno, o chiuderanno, altre possibilità».
Qual è, a vostro avviso, lo stato di salute del contemporaneo in Puglia? Quali sono i suoi punti di forza e quali invece quelli critici?
«Non ci sentiamo tanto in grado di rispondere con fermezza e con una visione precisa sia sullo stato di salute del contemporaneo in Puglia che sui suoi punti di forza o di quelli critici. La nostra opinione sarebbe parziale visto che stiamo poco a poco conoscendo la Puglia da questo punto di vista. Di sicuro c’è molto fermento nel leccese, abbiamo visitato e incontrato almeno quattro realtà significative in provincia. La differenza, però, la farà chi veramente e con genuinità vuole incidere sul territorio. E questo nostro presente può essere colto come un’opportunità per l’articolazione di un discorso che ripensi alla storia in modo de-coloniale, femminista, agricolo e artigianale. In questo senso, pensiamo che bisogna riconoscersi fra gli spazi e le persone con cui costruire narrazioni condivise, apparentemente difficili, ma che se praticate in modo organico possano generare, piccoli, anche piccolissimi slittamenti di pensiero».
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