Vita Immaginaria: partendo da questo spunto la scrittrice Premio Strega Melania Mazzucco, curatrice della sezione Arte della 36esima edizione del Salone del Libro di Torino, ha dialogato con personalità del mondo artistico, una su tutte Salvatore Settis, storico dell’arte, archeologo e curatore di fama internazionale, interrogandosi su come si possa vivere di arte oggi, includendo tradizione e classicismo nella modernità, su come si recuperi e difenda il concetto di paesaggio, ambiente e memoria, su cosa ci riservi il futuro attraverso la letteratura, il cinema e l’arte possano valorizzarlo. Da questo dialogo e dagli altri, è emerso un quadro che ha permesso di parlare di politica culturale a tutto tondo, che passa dalla necessità della tutela del patrimonio italiano, della ferita della memoria, dall’importanza della sinergia con le istituzioni, dalla valorizzazione del paesaggio e del patrimonio artistico e storico. Abbiamo incontrato Melania Mazzucco per una condivisione sentita di quest’esperienza.
Lo scorso anno è stata ospite al Salone del Libro di Torino per presentare il suo libro edito da Einaudi nel 2022 Self Portrait. Il museo del mondo delle donne: tra le tante, Artemisia Gentileschi, Berthe Morisot, Frida Kahlo, Louise Bourgeois, Giosetta Fioroni, di contro a una visione maschilista per secoli dominante. Ragionando sulla lettura attraverso l’arte, come metaletteratura, quanto secondo lei l’arte ha aiutato e aiuta la lettura a parlare di temi attuali?
«La narrazione d’arte in Europa ha una tradizione molto alta: ad esempio, quella anglosassone è di tipo popolare e commerciale, basata spesso sulla vita scandalosa del “maledetto”, un modo più semplice per avvicinare il grande pubblico a nomi d’eccellenza rendendoli miti popolari. Non sono ostile a questo, ma quello che mi interessa come scrittrice e lettrice è la tradizione europea che spesso ha fatto uso dell’arte per interrogarsi anche su grandi questioni, come il rapporto dell’artista con il potere. Penso a tutti i libri di area germanica, come la vera e propria letteratura su Grunewald, grandissimo pittore tedesco. L’arte serve per comprendere vicende eccezionali, anche metafisiche, sul senso della vita. È quello che avviene con i quadri stessi.»
In che modo?
«Uno dei miei libri contemporanei Sei come sei, del 2016 – che tra l’altro ha suscitato un pandemonio in Italia, essendo la storia di una bambina figlia di due padri, avuta con la maternità surrogata – vive al centro di una riflessione su un quadro visto dal protagonista e anche ovviamente dall’autrice, a Budapest, nella Sala degli Spagnoli, di F. Herrera il Vecchio, un San Giuseppe con il Bambino di epoca seicentesca. Mi aveva molto colpito perché in quel momento non conoscevo bene la tradizione spagnola. Sapevo soltanto, come italiana, che negli occhi miei San Giuseppe era un uomo anziano, rugoso, malaticcio che in nessun modo avrebbe potuto essere il padre di Gesù, tantomeno il marito di Maria. Nella tradizione spagnola non è così: Giuseppe è un giovane barbuto, virile, con il bambino in braccio, come un padre, naturalmente un padre diverso, spirituale. Ho iniziato così a interrogarmi sulla diversità della nostra iconografia e sul senso della paternità. L’iconografia straordinaria sulla paternità ci dice che il bambino è biondo, il padre moro, uno è il figlio, l’altro il padre, non sono biologicamente legati ma Giuseppe protegge in ogni maniera il bambino che morirà. Il dialogo con le immagini, anche antiche, è sempre vivo e ci parla. Vorrei che chi leggesse i miei libri fosse spinto verso l’arte e a volte anche verso le sue scelte radicali, potenti, violente, come quelle dei pittori del Cinquecento che decidevano di mettere alla base del quadro una donna, in un momento in cui il punto di vista di chi guardava era sempre maschile.»
Quest’anno torna al Salone come curatrice della sezione Arte, nel tentativo di spiegare come si vive oggi di arte e come si tramanda. Ha incontrato l’artista Monica Bonvicini, la gallerista e storica dell’arte Francesca Cappelletti, la scrittrice Alexandra Lapierre e lo storico dell’arte Salvatore Settis. Quali sono gli spunti più interessanti emersi da questi dialoghi?
«Avevo scelto di fare quattro incontri con personalità molto diverse tra loro. Il primo è stato con l’artista veneziana, oramai berlinese, Monica Bonvicini. Mi interessava far incontrare un’artista al pubblico del Salone per superare il luogo comune del pregiudizio sull’arte contemporanea come nel famoso film a episodi con Alberto Sordi del 1978, Dove vai in vacanza? nel quale i protagonisti sono due romani ricchi, moglie e marito, ma poco colti. In visita alla Biennale, lei siede sotto una palma e viene fotografata come fosse un oggetto artistico. Questo è il modo in cui spesso mediamente si tende a vedere l’arte contemporanea, basti pensare a Potevo farlo anch’io, di Francesco Bonami. L’altro modo è cercare di capire cos’è e come nasce un’opera contemporanea. Monica Bonvicini ne è un esempio, poiché ha realizzato istallazioni permanenti in spazi urbani, ad esempio a Londra e a Oslo. Ci interessava poi come si scrive oggi di arte contemporanea, spesso in maniera troppo specialistica e come poterne parlare in altra maniera. Altro incontro decisamente interessante è stato con Francesca Cappelletti, Direttrice di Galleria Borghese di Roma.»
Quali sono stati i temi trattati?
«Abbiamo ragionato su cosa voglia dire dirigere un museo e cercare di rendere accessibile un patrimonio, tenere vivo un luogo, anche di arte antica, riportando ad esempio a galla opere dai depositi. Ne sono emerse due, con la loro storia. Una è un presunto autoritratto di Marietta Tintoretto, che in realtà non è né Marietta, né un autoritratto, ma è affascinante che quest’opera sia entrata nelle collezioni perché il mito di Marietta ha generato il desiderio di vederla e quindi ogni museo del mondo quasi ha un autoritratto di Marietta che non è il suo vero autoritratto ma rappresenta opere dell’epoca che vengono di volta in volta adattate. Trovo questo interessante per il collezionismo e anche per noi nel mondo attuale. Altra opera è una di Lavinia Fontana, che era nella collezione di Scipione Borghese, mai ritenuta abbastanza bella da essere esposta. Oggi il criterio con cui ci approcciamo alle opere delle pittrici del passato è cambiato. Non possiamo guardare le opere d’arte di fine Ottocento delle pittrici con gli stessi canoni con cui guardiamo le opere dipinte dai pittori perché le pittrici hanno una formazione completamente diversa, in termini di caratteristiche e modernità, nonché arretratezza di certe composizioni. Dobbiamo cambiare la visione per apprezzare questi quadri.»
A proposito dell’incontro con Salvatore Settis, gigante della storia dell’arte, oggi ha presentato il suo ultimo libro Registro delle assenze. Profili e paesaggi, edito da Salani Editore, una galleria di personaggi incontrati nel corso della sua vita e in varie occasioni che in qualche modo hanno influenzato il suo pensiero, in cui convivono classicità e modernità. La riscoperta dell’antico e delle tradizioni sono essenziali per l’attualità: questo è evidente anche nei suoi libri, nel processo di scrittura meticoloso e di ricerca che procede per strati come nell’archeologia. Dall’incontro è emerso anche un dialogo sulla tutela e su come dovranno essere trattati in futuro paesaggio, ambiente e mondo classico.
«Il fascino dell’incontro con il Professor Settis nasce proprio dall’idea che io condivido in maniera semplice, essendoci arrivata per deduzione di viaggiatrice, il senso di appartenenza che mi offre l’Italia tutta, nella sua diversità e specificità. Sono cresciuta in un quartiere moderno, bruttissimo, fatto di palazzine, senza urbanistica, eppure vedere che intorno a me c’era altro e che fosse mio anche quello: non solo l’anonimato ma l’orgoglio delle cupole, della loro forma e bellezza, il segno di Roma, mi hanno sempre dato un senso di appartenenza che ho cercato di condividere. Mi sono sentita veneziana quando ho vissuto a Venezia e sono certa di essere riuscita a far amare Venezia non come luogo di bellezze morte ma vive.»
In che modo questo è confluito nella scrittura?
«Per quanto riguarda la mia scrittura, una delle cose che colpisce di più i lettori ne L’ architettrice, (Einaudi, 2019), è la riscoperta di un territorio, una Roma che non è immobile ma in continuo movimento. Piazza San Pietro non aveva il Colonnato, non c’era la prospettiva, c’era invece il sogno visionario di vederla in tutt’altro modo. Plautilla Bricci, la pittrice architetta del Seicento raccontata nel romanzo, realmente vissuta, sognava di fare diversamente la scalinata di Trinità dei Monti, oggi simbolo di una città. Questo ci insegna che la città vive e cambia ed è viva finché si riesce a cambiarla con gli architetti contemporanei che si inseriscono nel paesaggio rispettandolo e aggiungendo ogni volta qualcosa di diverso. Borromini, poco conosciuto dai romani ma amatissimo oggi da tutti gli architetti del mondo, ha fatto a Roma le cose più belle in assoluto. Ho cercato di raccontare la crescita della città, la Roma barocca che non c’era, ma che è stata fatta, anche con un’inimmaginabile libertà di movimento perché alla fine Plautilla, che è una donna, riesce a operare in quella Roma, a fare un cantiere, è infatti autrice di Villa del Vascello e della Cappella Benedetti in San Luigi dei Francesi, vicina alla ben più nota Cappella Contarelli del Caravaggio.»
“Vita Immaginaria” è il titolo di questa 36esima edizione del Salone del Libro di Torino. Cosa sente di consigliare ai futuri aspiranti artisti e scrittori?
«Ai giovani artisti consiglio di poter operare all’interno dei luoghi. Ricordo che a Venezia la Giudecca dava spazi come atelier all’aperto. I giovani hanno bisogno di spazi fisici, per i loro lavori, le istallazioni, i progetti. L’arte va incentivata a livello pubblico, così come fanno le Fondazioni e i privati. A noi, narratori, saggisti e artisti, e dopo di noi alle nostre opere, il compito di fare una mappatura emotiva raccontando i luoghi per creare un circuito virtuoso di scoperta e conoscenza reciproche.»
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