È morto un altro grandissimo del cinema italiano. Tutti i coccodrilli parlano del maestro della commedia italiana, ma a ben guardare i suoi film si inseriscono a fatica in un unico genere, codificato e definito. Fin dalle prove iniziali (come
Il segno di Venere, 1955), infatti, il cinema di
Dino Risi si caratterizza per ciò che è stato spesso, e con faciloneria, definito cattiveria, è che altro non è che realismo.
La maturità felice di
Una vita difficile (1961) e
Il sorpasso (1962) dimostra come l’analisi psicologica di un’intera società -quella del boom, del nascente consumismo e della disillusione scambiata per superficialità- debordi decisamente dai confini del cinema d’autore e si serva dell’ironia e del canone popolare per affilare i colpi e lo sguardo (“
Grande regista quell’Antonioni: me so’ fatto na dormita!“).
Ma è sul finire dei favolosi anni ‘60, e soprattutto con i crudi anni ‘70 che Risi -insieme a
Mario Monicelli (
Amici miei, 1975) e a
Ettore Scola (
C’eravamo tanto amati, 1974)- trasforma i suoi ex-vitelloni in sopravvissuti, residui anneriti e inariditi di un’età dell’oro che non c’è più, o che forse non c’è mai stata.
Allora,
In nome del popolo italiano (1971), cattura con acutezza i tratti caratteristici dei tipi nazionali, attuali e identici a se stessi, con variazioni minime, anche venti, trenta, quarant’anni dopo.
Ma è soprattutto un’opera disperatamente intima come
Profumo di donna (1974) ad assumere a pieno titolo i caratteri dell’autentico capolavoro, universale come pochi. Il capitano cieco Fausto Consolo, spietato e linguacciuto (“
un vero bastardo“), che scopre solo alla fine “
come è fatto un uomo“, vale a dire se stesso e le sue debolezze, senza filtri né avvitamenti intellettuali, è ognuno di noi. Eppure, come dice la giovane Sara, nessuno è come lui: “
Ti vorresti forse paragonare a lui?“
La delicatezza, la misoginia, la sofferenza e l’estremo disincanto di questo personaggio (forse il più grande tra quelli interpretati da Vittorio Gassman) rappresentano senza alcuna retorica i sentimenti collettivi di un’Italia smarrita e furiosa.
Film come questo (e come
Un borghese piccolo piccolo, 1977, o
Brutti, sporchi e cattivi, 1976) costituiscono l’ultima, grande stagione del cinema italiano -con buona pace di tutti i
Divi e le
Gomorre attuali- e al tempo stesso il primo, riuscito tentativo (forse inconsapevole, forse no) di costruire una versione italiana del realismo postmoderno. Parallela, e a volte antitetica, a quella del cinema americano, da
Taxi Driver (
Martin Scorsese, 1976) a
King of Comedy (Martin Scorsese 1983), passando per
The Deer Hunter (
Michael Cimino 1978) e
Dawn of the Dead (
George A. Romero 1979).