Nella querelle fra realisti e astrattisti, l’infelice richiamo all’ordine di Togliatti del 1948 sulle colonne di “Rinascita”, è stato più volte assunto nella letteratura critica su Renato Guttuso (1911-1987) come uno spartiacque fra quello che la sua pittura avrebbe potuto essere e non è stato e quello che poi di fatto fu. Come se le promettenti premesse già delineatesi con forza di proposta nella prima maturità dell’artista, fra l’affermazione nell’ambito della Scuola Romana e l’esperienza milanese di “Corrente”, da metà degli anni Venti fino ai primi Quaranta, fino cioè a quel capolavoro indiscusso che è Crocifissione (1940-41), fossero state smentite clamorosamente dalla pastoia post-cubista di ascendenza picassiana che Guttuso sentì di dover fare propria, quale occasione di allineamento alle più aggiornate frange formaliste europee. Quando talune declinazioni della sua pittura in tal senso, di estrema pervicacia espressionista, apparvero appiattite sull’improbabile intenzionalità narrativa di un realismo sociale ancora in cerca di linguaggi e contenuti realmente nuovi.
Su una così affrettatamente riduttiva, benché per certi aspetti motivata, valutazione della sua opera -come se questa poi dovesse giocarsi tutta nello stretto giro di quei tardi anni Quaranta- ha da sempre pesato una congiuntura tutta nostrana di eventi e personalità che non sapevano (o non potevano) prescindere da asettiche posizioni ideologiche. Persino all’interno della stessa “critica di sinistra” sembrava impossibile mettere in discussione il dogma della pittura di Renato Guttuso e aprire ad un confronto dialettico tanto con gli esiti sempre nuovi e mai scontati della ricerca del bagherese (anche dopo quel fatale richiamo, cui peraltro il pittore reagì con una replica affidata alle pagine dello stesso giornale), quanto con la lucida coscienza teorica che, instancabilmente, con una mole notevole di scritti e di interventi pubblici, ha sostanziato sin dagli anni di gioventù la sua presenza nel dibattito artistico italiano del XX secolo.
L’operazione di sfrondamento meritoriamente intrapresa da Enrico Crispolti nelle introduzioni ai quattro monumentali volumi del Catologo ragionato generale dei dipinti di Renato Guttuso (1983-89) ha contribuito non poco a sottrarre il “personaggio” Guttuso alla banalizzante deriva di esaltazione agiografica della sua opera e ad orientare quindi la rinnovata e più matura attenzione che con sempre maggiore evidenza continua a proiettarsi oggi sulla sua attività. Una triplice conferma in tal senso viene dalle due grandi mostre di Torino (Guttuso. Capolavori dai Musei, a cura di Fabio Carapezza e Daniela Magnetti) e Roma (Renato Guttuso. Opere della Fondazione Francesco Pellin, a cura di Enrico Crispolti) e soprattutto dall’acquisto, da parte della Galleria degli Uffizi di Firenze, della Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, nella prima versione dipinta fra il 1951 e il 1952. Il dipinto, battuto all’asta da Farsetti Arte di Prato per 750.000 euro, quasi un miliardo e mezzo di vecchie lire, registra un prezzo record per Guttuso, indice di una nuova fortuna di mercato come evidente conseguenza di un crescente interesse collezionistico per la sua opera. L’ingresso della monumentale tela nel tempio dell’arte italiana, accanto alla La Battaglia di San Martino di Corrado Cagli, chiude forse il problema di quel controverso periodo della sua produzione e consegna ad una nuova lettura la flagranza della sua pittura.
Se non è in discussione una “maniera Guttuso”, vista in tante tele e tante composizioni dalla spesso traballante risoluzione -e su un catalogo di oltre tremila opere è fisiologica una certa discontinuità- è innegabile la vitalità, la forza, la coerenza totalizzante di una pittura che, pure nella contraddizione, non ha perso mai di vista le ragioni della propria indagine.
Fatte salve le nefaste conseguenze prodotte nella folta schiera di epigoni che hanno provato a raccoglierne l’eredità, col risultato unico di ipotecare a lungo l’immagine e il destino di Guttuso in un orizzonte provinciale di rivendicazioni e (auto)celebrazioni senza sbocco, rimane del pittore di Bagheria l’impronta forte di un personalissimo linguaggio figurativo, in cui l’uso espressionistico del colore è al servizio di una tensione intellettuale tutta concentrata sulla forza comunicativa di icone prese in prestito all’infinito e ribollente repertorio immaginativo della realtà.
Nel dominio saldo di un’ispirazione finalmente libera da condizionamenti di sorta, le opere della maturità, già a partire dal ciclo dell’Autobiografia fino alle grandi ultime composizioni de La Vucciria, del Caffè Greco, de I Funerali di Togliatti o di Spes contra spem, sono eloquenti esempi di una poetica militante in cui l’attenzione ai cambiamenti della società, il ricordo personale, il frammento o da ultimo la “visione” si nutrono di una passione fagocitante per il mestiere e l’impegno civile della pittura nei confronti della vita, dei suoi codici e della possibilità di leggere e interpretare il proprio tempo. Con una lucidità ed un’incondizionata volontà di compromissione fra arte e vita che resta, nella distanza storica, il modo d’essere più autentico ed attuale del pittore, e dell’uomo, Renato Guttuso.
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davide lacagnina
[exibart]
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