Il mondo dell’arte e della cultura sta attraversando un momento critico della sua storia, ovviamente a causa della serrata generale per l’epidemia da Covid-19. Dopo il proliferare di opinioni e di analisi a medio-lungo raggio, lo abbiamo chiesto a una voce molto riconosciuta del settore, il critico Luca Nannipieri. Che non prefigura un futuro proprio roseo.
Che ne pensi delle misure prese dal governo per la Cultura?
«Sulla cultura, purtroppo, le conseguenze del virus saranno, temo, devastanti. Se, per le giustificate esigenze di salute pubblica, lo stop a tutte le attività culturali proseguirà ancora a lungo, vi sarà il collasso sistemico del settore. Decine di migliaia di professionisti della cultura non avranno entrate economiche. A tutto questo il Governo risponde come? Finora, a mio avviso, con i cerotti: tasse rimandate, ma non cancellate, inutili voucher, sospensione dei versamenti delle ritenute e dei contributi previdenziali, 130 milioni di euro per lo spettacolo che sono briciole e bisogna vedere come verranno redistribuite, 600 euro una tantum per le Partite Iva. Sostanzialmente cerotti di fronte ad un numero impressionante di futuri disoccupati. La crisi più grave dal dopoguerra, come ha detto il Presidente Conte, ha bisogno di interventi urgentissimi di più ampia portata economica».
Come immagini dopo questa crisi/epidemia la vita di musei, gallerie e del mondo dell’arte?
«Bisognerà vedere come reggeranno le strutture portanti del Paese e la tenuta psicologica dei cittadini da qui a quando l’epidemia sarà passata. A me non impressiona se gli Uffizi chiederanno ai visitatori di stare sempre ad un metro di distanza o se i musei più avanzati adotteranno screening della temperatura corporea dei turisti come viene fatto ora agli aeroporti. A me impressiona la possibilità, non remota, che, in assenza di vigorosi aiuti di Stato, il sistema dell’arte non regga l’urto delle conseguenze del Coronavirus e dunque si polarizzi tragicamente: da una parte singole istituzioni preminenti che sopravvivono perché, per prestigio e potere, non possiamo farle fallire (ad esempio la Scala di Milano o la Biennale di Venezia) e dall’altra parte uno sterminio di medie e piccole realtà, ovvero musei, pinacoteche, festival, rassegne, teatri, che hanno fatto la bellezza disseminata d’Italia e che non avendo fondi per reggere e non avendo, per medio lungo tempo, turisti per incassare, vanno verso la chiusura o la pura passività. Questo temo: il radicale impoverimento strutturale del mondo dell’arte».
Come vivi questo momento?
«La casa come isolamento assoluto per due mesi mette alla prova la solidità psicologica di ciascuno di noi. Ha detto giustamente Paolo Crepet: “Un conto è chiudere la propria azienda, bottega, per tre o quattro giorni, un altro sarà quando si comincerà a capire che non sono tre, quattro, o cinque, ma quindici, venti, trenta. Ecco, a quel punto inizia una fase depressiva, in cui si abbassa l’autostima individuale e collettiva. Occorre ricordare che fu proprio in corrispondenza con la più grande crisi economica mondiale, quella del 1929, che si contò il più alto tasso di suicidi del Novecento».
Ci parli del tuo ultimo libro su Raffaello e della mostra sospesa?
«Dopo “Capolavori rubati”, divenuto bestseller della casa editrice Skira e presentato nei maggiori musei italiani, è uscito il mio nuovo libro, dedicato a Raffaello, in occasione della mostra per i 500 anni alle Scuderie del Quirinale a Roma, di cui Skira pubblica il catalogo, così come edita il mio saggio. Tutti pronti per partire, già organizzata alla Camera dei Deputati una presentazione ufficiale del mio lavoro così come varie altre nei musei, arriva il Coronavirus e manda a monte tutto. Rimangono però il mio libro e il suo contenuto: l’uomo è più importante di Dio. Sembra scritto questo nell’opera che ritengo più importante di Raffaello, lo Sposalizio della Vergine, conservata alla Pinacoteca di Brera. Guardando la scena, paradossalmente, centrale non è Dio, non è il suo racconto, ma è l’opera dell’uomo. In quest’opera e in altre di Raffaello, silenziosamente, si fa strada quel laicismo – quella fiducia cioè nella potenza dell’uomo, prima che in Dio – tipico della nostra modernità».
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