Editorialista del Financial Times e di The Art Newspaper, docente al Sotheby’s Institute of Art di Londra, Georgina Adam è tra le massime esperte internazionali di mercato dell’arte. È autrice di Big Bucks. The Explosion of the Art Market in the 21st Century (2014) e Dark Side of the Boom. In quest’ultimo ha affrontato — forte della sua lunga esperienza sul campo — controversie, intrighi e scandali nel mercato dell’arte. Da qui, l’analisi di molti fenomeni: dall’acquisto di opere d’arte come investimento o speculazione alle sempre più frequenti problematiche legate al falso e alla truffa, dall’evasione fiscale al riciclaggio, fino al conflitto di interessi. Ma quanto il coronavirus ha cambiato e sta cambiando il sistema sia in ambito privato che pubblico?
Il coronavirus non ha risparmiato il sistema dell’arte. Come ha risposto il mercato?
«Inizialmente, il commercio d’arte è stato paralizzato dalla pandemia. I collezionisti erano impegnati a osservare il crollo delle borse, l’aumentare dei contagi e dei decessi, l’andamento della malattia da Est a Ovest. Altrettanto destabilizzante è stata la mancanza di informazioni o di conoscenza anche di cose basilari. I mercanti d’arte mi hanno detto che all’inizio le loro vendite sono crollate. Il mondo è andato in lockdown, le aste sono state annullate o rinviate. Tefaf a Maastricht ha aperto e chiuso sei giorni dopo. Poi aste e gallerie d’arte in tutto il mondo sono state costrette a chiudere e le fiere d’arte sono state annullate. La prima è stata Art Basel Hong Kong, poi Art Basel a Basilea, inizialmente rimandata a settembre. Entro l’estate era chiaro che i viaggi sarebbero stati fortemente compromessi e quasi tutte le fiere principali sarebbero state cancellate fino alla fine dell’anno. Le principali case d’asta occidentali, Sotheby’s, Christie’s e Phillips, hanno lavorato rapidamente per trovare una soluzione online. Avevano già una serie di lotti di alto profilo che erano stati programmati prima della crisi e hanno potuto aggiungere altri lavori. Quindi, combinando le vendite di Londra e New York, e unendo anche i vari settori e categorie, sono stati in grado di produrre vendite rispettabili, anche se con un valore e volume notevolmente inferiori a sessioni comparabili dell’anno prima. Sotheby’s ha preso il via il 29 giugno con una vendita in streaming trasmessa da Hong Kong, Londra e New York e diretta da un unico banditore a Londra, in una sessione estenuante di quattro ore e mezza. Pochi giorni dopo, Christie’s ha organizzato la sua vendita ONE, trasmessa in streaming da Hong Kong, Parigi, Londra e New York, questa volta con un banditore in ogni sede. Ancora una volta, è stata una sessione estenuante ma entrambe le vendite hanno avuto successo, con alti tassi elevati di sell-through. Questo è servito a rassicurare il mercato sul fatto che c’era ancora vita nel commercio d’arte, mentre le fiere hanno organizzato delle Online Viewing Rooms (OVR) che hanno permesso agli acquirenti di vedere cosa sarebbe stato offerto negli eventi. Sono state effettuate vendite, anche se, secondo un rapporto della Bank of America, queste rappresentavano solo circa un quarto delle vendite che le gallerie avrebbero realizzato in una fiera fisica. Quindi, dove siamo adesso? Le gallerie hanno riaperto, le case d’asta hanno spostato la maggior parte delle loro vendite online e i collezionisti sono tornati. Tuttavia sembra certo che il livello di attività sarà molto inferiore a quello che era solo un anno fa.»
Le aste online hanno per ora sostituito quelle tradizionali. In questo caso però non abbiamo assistito a grandi stravolgimenti: da tempo i grandi collezionisti acquistano da remoto o con la mediazione di consulenti.
«Vale la pena notare che la società di analisi dei dati sul mercato dell’arte ha riferito che nel complesso le vendite di Sotheby’s, Christie’s e Phillips si sono quasi dimezzate nel periodo di sei mesi da gennaio a luglio 2020 (incluso) rispetto al 2019. Il trasferimento online è stato effettuato con successo. Certamente, i collezionisti hanno dovuto improvvisamente acquistare online e le case d’asta li hanno aiutati a farlo, anche da un punto di vista tecnologico. Per quanto riguarda l’Asia, dove i collezionisti erano già largamente abituati a utilizzare Internet per tanti gesti quotidiani, il passaggio online è stato meno impegnativo. Non credo che il rapporto collezionista / consulente d’arte sia cambiato così tanto a causa della crisi, ciò che è cambiato è stata l’impossibilità per entrambi di vedere fisicamente le opere.»
Le fiere d’arte sono state rimandate, alcune si sono tenute online. I collezionisti come hanno risposto? Hai dati positivi?
«Non ci sono mai stati dati verificabili per le vendite alle fiere d’arte, prima o dopo il COVID-19. Non è raro che i galleristi rivendichino grandi vendite all’inizio di una fiera, quando le opere principali sono state già negoziate con i collezionisti prima dell’evento, ma proclamati come “vendite all’inaugurazione”. Il passaggio alle OVR avrebbe forse potuto migliorare la trasparenza poiché un’opera venduta potrebbe essere rimossa dalla stanza (virtuale ndr) o mostrata come venduta, ma è ancora difficile da valutare. Aneddoticamente, sembra che le vendite online non siano state così forti come lo sarebbero state in una fiera fisica.»
L’epidemia ha mostrato una certa fragilità del sistema dell’arte soprattutto in termini di mancanza di fondi di molte istituzioni, per lo più pubbliche, che ora affrontano problemi organizzativi, di personale etc. Quali sono secondo te le strategie per il futuro?
«Certamente l’epidemia è un disastro per musei e gallerie. Il Met di New York ha dichiarato che perderà almeno 150 milioni di dollari. I musei più piccoli potrebbero dover chiudere: tutti stanno riducendo il personale. Quali le soluzioni? Purtroppo, il ridimensionamento del personale sembra inevitabile poiché ci saranno meno visitatori e meno turismo per molto tempo. La prospettiva è realizzare meno mostre e con una durata sempre più lunga, andando a prelevare opere già presenti nelle collezioni delle istituzioni, invece di fare “blockbuster” con prestiti costosi, spedizioni e assicurazioni. Alcuni musei americani stanno già vendendo opere per raccogliere fondi. Trovare altri flussi di entrata, come l’affitto di una parte dell’edificio, probabilmente non sarebbe accettabile in un’istituzione pubblica, ma immagino che i direttori dovranno considerare ogni soluzione possibile. Sicuramente, gli amministratori, i sostenitori e il governo dovranno contribuire se vogliono che queste importanti istituzioni culturali sopravvivano. Questi musei sono molto importanti nell’attirare il turismo internazionale, quindi devono essere aiutati a sopravvivere.»
In questo momento, a causa della difficoltà di movimentazione delle opere, pensi che le gallerie lavoreranno di più con artisti locali?
«Sì, sembra che ora vi sia proprio una tendenza al locale, perché i collezionisti non possono viaggiare, non ci sono fiere e per il momento non sappiamo quanto durerà ancora. Quindi questo dovrebbe giovare a una dimensione più “locale”, sia per le gallerie che per gli artisti. Penso che quando le fiere riprenderanno fisicamente, probabilmente vedremo meno espositori internazionali. E anche la consapevolezza del danno all’ambiente è un elemento. Il fatto di non movimentare troppo le opere avvantaggia gli artisti locali.»
Molte gallerie non hanno retto il colpo. Alcune si sono unite. Penso alla recente partnership tra Gavin Brown e Barbara Gladstone. O, in Italia, a Francesca Simondi che da assistente di Alberto Peola è entrata in società con l’omonima galleria torinese. Che scenari prevedi?
«Sì, la partnership sembra essere una strada da percorrere. Le più minacciate sono le gallerie di medie dimensioni, non le più piccole, non le “mega”. Penso che l’art advisory farà da perno e forse più gallerie primarie aggiungeranno il mercato secondario per rimanere in affari. Ma prevedo delle chiusure, purtroppo.»
Secondo te l’arte contemporanea cutting-edge è ancora oggi un bene rifugio?
«Se parli d’investimento in arte, direi di no. Ci sono pochissimi artisti che puoi chiamare “sicuri” in quello che Artnet chiama il mercato del “winner takes all” — solo 25 di loro. E il problema è che, poiché sono così sicuri, un asset a sé, i loro prezzi sono estremamente alti. Penso che l’effetto della pandemia sarà quello di indirizzare più acquirenti verso artisti “sicuri”, quelli con un buon curriculum, il riconoscimento dei musei e il plauso della critica. Purtroppo i giovani artisti sconosciuti saranno meno favoriti, anche se va detto che alcuni emergenti — come Matthew Wong, Julie Curtiss, Amoako Boafo, Tschabalala Self e altri — hanno assistito a una febbrile speculazione. Secondo me, i loro prezzi folli e alti attuali saranno difficili da sostenere a lungo termine.»
Hai visto il film Velvet Buzzsaw del regista americano Dan Gilroy. Uno spaccato piuttosto impietoso sul mondo dell’arte contemporanea. Che ne pensi?
«Sì, alcuni anni fa. L’inizio era un ritratto accurato, anche se spietato, del mondo dell’arte, tuttavia il film è degenerato nell’assurdità e alla fine è stato deludente. Gli stessi commenti si possono fare per The Square, un’altra interpretazione amara del mondo dell’arte. Purtroppo gli eccessi illustrati esistono ma non rappresentano la totalità del mondo dell’arte. Ci sono tantissimi galleristi, banditori, specialisti e quant’altro che non si comportano così!»
Il tuo ultimo libro The dark side of the Boom indaga scrupolosamente dall’interno il mercato dell’arte. Stai lavorando a un altro progetto editoriale?
«Sì, sto scrivendo un libro sui musei privati. Sono molto interessata a questo fenomeno: al perché i collezionisti vogliono i propri musei (invece di donare a quelli locali), a come li finanziano e a cosa significa in termini di riscontro critico per gli artisti. Sono solo progetti di vanità o qualcosa di più ammirevole? Si tratta solo di pagare meno tasse o sono genuinamente filantropici? Possono essere utilizzati per aumentare il prestigio di un artista nel momento in cui il proprietario stesso vi ha fortemente investito?»
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