Regista, scenografo e artista poliedrico, Romeo Castellucci è noto in tutto il mondo per aver dato vita a Socìetas, compagnia che fa del teatro lo specchio della totalità delle arti. Lo abbiamo incontrato a Parigi e ne abbiamo approfittato per sapere qualche dettaglio su La vita nuova, lavoro prodotto da La Monnaie, Bozar e Kanal-Centre Pompidou, dove ha debuttato nel 2018 e che ora è in prima nazionale al DUMbo di Bologna, il nuovo centro culturale della città.
Da dove nascono le immagini di La vita nuova?
«L’origine delle immagini è passiva: le immagini incontrano me. Per quanto paradossale possa essere, io organizzo ciò che già esiste. Probabilmente passando dal parcheggio di un aeroporto, ho delle auto coperte da teli, e da quella impressione sono partito. A quel punto si tratta di organizzare il tempo, come architettura che disegna forme temporali. Le immagini arrivano e passano, non mi appartengono, sono i fenomeni che ci circondano, gli accidenti esterni dotati della forza tremenda della banalità grazie alla quale si impongono alla mia attenzione, per quanto siano elementi spesso invisibili e non degni di attenzione, come appunto un parcheggio».
Luoghi che tu abiliti a “luoghi dell’arte”…
«Partendo da un’immagine di realtà, e assumendola fino in fondo, un luogo può trasformarsi e tendersi come un arco, capace di scagliare lontano la propria forma, in funzione dell’errore, aprendo un rapporto di crisi rispetto alla realtà da cui proviene. Il teatro è il luogo “sbagliato”, il luogo dell’errore; questo è il lascito della lezione greca. Per La vita nuova ho insistito su questo elemento, inserendo, per così dire, una doppia temperatura. Questa estrema povertà e banalità – siamo circondati da automobili – si irradia nella mitologia. È bastato coprire tutte le auto con un panno bianco e queste hanno di colpo assunto una forma metaforica, un gregge di pecore o un consesso di fantasmi o un deserto di sale. L’immaginazione comincia a gemmare. Stesso discorso per l’uomo che cammina in mezzo alle auto: lo si direbbe un parcheggiatore, poi si scopre che ci sono altri fratelli, vestiti di bianco, come le automobili. Compiono gesti trasfigurati, liturgici, anche se si tratta qui di una liturgia priva di qualsiasi misticismo: al contrario, è un fare liturgico che ha come compito quello di scardinare l’assolutismo della realtà».
Nel testo di Claudia Castellucci c’è una contrapposizione tra arte e artigianato: quanto incide nella dimensione artigianale della composizione?
«La contrapposizione tra arte e artigianato è una immensa faglia tettonica già presente nella storia dell’arte. Qui si vuole interpretare il concetto spirituale di ornamento, come riscatto per la vita concreta e la “umile vita quotidiana”. Qui si imputa all’arte di non toccare più il cuore delle persone, di essere una superstizione degli artisti sganciata dalla vita. L’arte, come si sa, ha bisogno di musei per affermare se stessa; l’artigianato invece lo spazio lo fa, lo crea. Ci sono oggetti artigianali che riscattano l’umiliazione della povera vita. Diventano luoghi possibili e abitabili. L’ornamento nasce prima dell’arte, ed è presente in tutte le civiltà: secondo i paleoantropologi il primo gesto culturale sarebbe stato quello di levigare le superfici delle pietre, solo per il piacere di sentire nelle mani una superficie liscia. Questa è già una prima forma di ornamento, una forma di riscatto».
Quando si sono uniti le immagini e il testo?
«Presto. Avevo queste immagini di pastori, altissimi, questo paesaggio, questa caverna, e l’idea degli ornamenti. Claudia e io abbiamo parlato e abbiamo capito che l’argomento poteva farsi carico di questo scisma, di questa contraddizione: la polemica tra arte e artigiano, una spaccatura culturale: poteva essere una buona materia drammatica. Poi c’era l’idea del sermone e l’idea dell’Africa. Claudia ha infine scritto il discorso. È sempre un grande privilegio per me poter lavorare con le sue parole. Affiorano alcune reminiscenze di Bloch, anche se, devo dire, rimane sullo sfondo».
È forte e assente la componente femminile che emerge sia dal testo sia dalle immagini dei protagonisti.
«I protagonisti calzano scarpe da donna. C’è un riferimento costante alla potenza femminile. Le donne delle caverne, sono loro che hanno inventato la fantasia, che hanno avuto la capacità di inventare mondi: secondo alcune letture della paleoantropologia sono i gruppi femminili che hanno inventato l’arte e la religione, narrazioni e disegni, in funzione di equilibrio al potere maschile dei clan dei cacciatori. Ecco perché a rivendicare la forza femminile doveva essere un uomo, che accampa, alla luce della visione femminile, la sua visione del mondo: in un sottofondo conflittuale, dai forti toni profetici, un pastore di pecore sale sopra un’auto rovesciata e parla al popolo – noi, spettatori – proferendo il suo sermone sull’Ornamento. Anche il gesto di rovesciare l’auto, che appartiene al linguaggio delle rivolte urbane, è stato pervertito: non si tratta di un atto “contro” il potere – sebbene funzioni proprio per il significato che ha assunto nel paesaggio dei conflitti urbani – Qui avviene con metodo e delicatezza, con l’intento di “mettere le ruote rivolte all’azzurro del cielo”, con un riferimento all’utopia e all’orizzonte del nuovo mondo, della Vita Nuova che viene. Si tratta di capovolgere interamente un ordine – non basta contestarlo – e per farlo è necessario evocare la visione, l’utopia e l’immaginazione femminile».
Negli anni, com’è cambiato il tuo metodo di lavoro, il tuo approccio al teatro?
«Da una parte c’è una mancanza di controllo, mentre dall’altra il controllo è totale. Vivo in questo tempo, in questa latitudine, non sono impermeabile a quello che arriva dal mondo esterno, ma il mio teatro non è un commento a quello che succede là fuori, non è una diagnosi. Piuttosto è un sintomo; e il sintomo è muto, non ha proposte, non emette giudizi, non ha intenzioni. È la rivelazione di ciò che esiste già. Da una parte esercito un controllo sulla forma, che cerco di affilare sottraendo informazioni. In questo, credo, c’è una differenza rispetto ai primi anni. Uso strumenti diversi, perché io sono diverso. Il mio obiettivo è evitare di avere uno stile, ma so di fallire. È essenziale essere in grado di toccare il “corpo” dello spettatore. Oggi».
Qual è il rapporto con la città di Bologna?
«Bologna è la mia città d’adozione, ci sono arrivato quando avevo diciassette anni, grazie a Claudia che studiava all’Accademia. Lei mi ha trascinato e il mondo dell’arte mi ha stravolto la vita. Ho mollato tutto e sono arrivato a Bologna in un periodo politicamente teso, con i carri armati in via Irnerio. Questo era il biglietto da visita della città. Ho avuto incontri importanti con professori e artisti, erano gli anni di Francesca Alinovi che organizzava la Settimana della Performance insieme a Barilli. Poi questo rapporto con Bologna si è perso, svanito, fino al 2014 quando la Città di Bologna ha consacrato il Progetto speciale dell’Assessorato alla Cultura intitolato a me stesso.
Il progetto intitolato e la volpe disse al corvo. Corso di linguistica generale è stato realizzato con un fitto calendario di eventi in collaborazione con Istituzione Musei, MAMbo, Cineteca di Bologna, Università di Bologna, Xing e Angelica Festival. Negli anni ’80, ’90 e 2000 sono stato accettato e sostenuto dai festival internazionali e prodotto dai grandi teatri europei che hanno in qualche modo assicurato il mio lavoro. Da qualche anno non di più, e non in molti luoghi, riesco a lavorare nel mio Paese, cosa della quale sono contento».
Una mostra interattiva per scoprire il proprio potenziale e il valore della condivisione: la Casa di The Human Safety Net…
Al Museo Nazionale di Monaco, la mostra dedicata all’artista portoghese Francisco Tropa indaga il desiderio recondito dell’arte, tra sculture, proiezioni…
Alle Gallerie d'Italia di Vicenza, in mostra la scultura del Settecento di Francesco Bertos in dialogo con il capolavoro "Caduta…
La capitale coreana si prepara alla quinta edizione della Seoul Biennale of Architecture and Urbanism. In che modo questa manifestazione…
Giulia Cavaliere ricostruisce la storia di Francesca Alinovi attraverso un breve viaggio che parte e finisce nella sua abitazione bolognese,…
Due "scugnizzi" si imbarcano per l'America per sfuggire alla povertà. La recensione del nuovo (e particolarmente riuscito) film di Salvatores,…