Sebbene questo 2009 sia un anno giustamente dedicato all’avanguardia delle avanguardie, il Futurismo, e si abbia la sensazione, a tratti soffocante, che non si possa parlar d’altro, la necessità di elogiare un ricordo impone una virata. Sul finire dello scorso anno, il 5 dicembre per la precisione, si è spento
George Brecht (all’anagrafe George MacDiarmid, New York, 1926 – Colonia, 2008).
Fino alla stagione ’58-’59, l’arte non è la sua principale attività; si laurea infatti nel 1950 in chimica e lavora come ricercatore nei laboratori di alcune case farmaceutiche di New York e del New Jersey, sviluppando alcuni importanti brevetti. Prima di entrare in contatto, attraverso la mediazione di
Allan Kaprow, con l’esperienza dei corsi newyorkesi di
John Cage, si dedica da autodidatta alla pittura, influenzato fortemente dall’Abstract Expressionism e dall’Action Painting di
Jackson Pollock.
Il suo interesse verso l’
operazione casuale subisce una modificazione in seguito alla frequentazione dei corsi alla New School for Social Research sul piano della modalità di applicazione: il gesto automatico, indagato nel suo aspetto “pittorico” in senso stretto, con la frequentazione delle lezioni-esercizio diviene fulcro dell’approfondimento delle componenti analitico-processuale e comportamentale dell’esperienza artistica.
“
My interest were in making musical pieces with built-in chance durations rather than pre-determined ones or using game elements such as playing cards as musical scores. The pieces turned out as interesting visually, atmospherically as aurally, though they were performed with as a little fuss, as economically, as possible” (George Brecht,
The Origin of Events, in
Happening & Fluxus, a cura di Harald Szeeman e Hans Sohm, Kölnisher Kunstverein, Köln 1970). Dall’affermazione trapelano, inoltre, alcune caratteristiche fondamentali della sua ricerca: l’ossessiva attenzione verso il caso, l’aleatorietà, l’utilizzo “giocoso” della parola e, ancora, il costante rapporto con la musica.
Di certo la figura di George Brecht è, per antonomasia, associata all’introduzione dell’
event. Quest’ultimo si definisce come una breve azione performativa le cui direttive sono stabilite su un cartoncino firmato. L’
event score è la chiave della sua opera: esso, infatti, decreta la durata finita delle azioni e la loro infinita riproducibilità.
Per descrivere la ricerca di Brecht si potrebbe citare
Water Yam (1963), una delle prime pubblicazioni contenente un gran numero di
event-card; e la rivista “V TRE” – il cui titolo si deve al malfunzionamento di un’insegna al neon -, fondamentale esperimento editoriale quanto poetico; o, ancora, fare riferimento alle sue eccellenti doti di performer.
Tuttavia, l’operazione che più di tutte racchiude in sé le precise e innovative dichiarazioni di poetica e lo straordinario punto di visto teorico-critico di Brecht è
Chance Imagery: un saggio – scritto nel 1957 e pubblicato nella collana
Great Bear Pamphlet della Something Else Press nel 1966 – che analizza il rapporto fra le teorie del caso e dell’automatismo psichico e meccanico in relazione allo sviluppo delle principali tendenze artistiche del Novecento.
Così si ritrovano affiancati
Duchamp,
Picabia e il gioco dei dadi, scienze matematiche e filosofia, in un excursus sistematico alla ricerca della tanto rincorsa
strict randomness. Per questi e per altrettanti motivi, il vuoto lasciato da Brecht è tanto indelebile quanto quei
Void da lui stesso impressi nella roccia come fossili contemporanei.