Accanto al mio letto, dentro ad una piccola libreria, c’è un numero considerevole di libri dedicati a Paul Celan. Tra i tanti conservo l’edizione tedesca del 2005 di Mikrolithen sinds, Steinchen: Die Prosa aus dem Nachlaß, che di recente è stata edita da Mondadori, nella collana Lo Specchio, con la pregiatissima traduzione e curatela di Dario Borso. Fa sempre piacere scoprire un poeta essenziale e illuminato. Uno di quelli che sappiano andare al di là di un tortuoso parlarsi addosso, in grado di scrivere e recitare parole vere, di dare anima e sangue a icone che restano indimenticabili.
E oggi, del resto, le parole sono così rare! Quelle che con un colpo d’ala fantastico, che inventando il ritrovato, ci consentono di allargare i polmoni in più potenti respiri. Non è necessario che il bravo poeta sia il sublime genio delle lettere, non basta che sappia irrorare la parola, che proponga una trama, che doti le sorprese di una qualsiasi intensità. Paul Celan sapeva bene che bisognava andare al di là dell’interesse, al di là del saper fare. Nella sua scrittura-pittura scorre l’obbligo morale di una lingua difficile, per cui chi legge deve progredire nella lapidarietà, mentre il poeta persegue l’essenzialità dell’auto-identificazione. Dunque, sia al poeta che ai suoi traduttori, si chiede la saggezza del Talmud. Microliti rientra in questa mirabile e singolare categoria! Paul Celan è autore mitteleuropeo, pseudonimo di Paul Antschel, nato a Cernăuți, Bukovina, nel 1920, cresce per volontà del padre secondo la cultura ebraica, mentre la madre lo influenzò con la lingua e la letteratura tedesca. Quindi, rumeno di nascita, viene poi considerato uno dei maggiori poeti e traduttori di lingua tedesca del 900. Tra le sue principali raccolte ricordiamo Papavero e Memoria (1952), Di soglia in soglia (1955), Grata di parole (1959), La rosa di nessuno (1963), Svolta del respiro (1967), Filamenti di sole (1968) e postume Luce coatta (1970), Parte di neve (1971). Un poeta, dunque, che visse entro un’atmosfera di dolore dell’uomo oppresso dai totalitarismi (sperimentò sia quello nazista che quello comunista) e l’inguaribile ferita della Shoah, che si manifesta tra le voci poetiche e conflittuali del ‘68 parigino.
Paul Celan ha saputo porsi come testimone degli orrori della storia e dare vita, in immagini e metafore tradite, nella riserva tagliente della parola, ad una lirica di incisiva verticalità ieratica. Una poesia, la sua, in cui il testo si pone come folgorante realtà, nata dal silenzio e dalla sofferenza. Accanto ai percorsi della poesia, fin dagli anni giovanili e nelle sue diverse lingue traduttive (dal rumeno al francese, attraversando il tedesco) Celan ha costruito una sorta di controcanto in prosa per frammenti-aforismi, abbozzi narrativi e di poetica, che negli ultimi anni virano verso l’epigramma e colgono uno stile di intrinseca brevità, di intenso stigma. Nel 1956 è lo stesso Celan a definirli, i suoi Microliti, “pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso dell’esistenza”; ormai “povero di parole e forse già irrevocabilmente condannato al silenzio”, il poeta dispera di “raccoglierli a cristalli” e continuerà ad accumularli ostinatamente fino alla morte. La premessa che Celan pone alla vicenda dei microliti rinvia a una lingua timica, che fa pensare al suo rapporto con Ingeborg Bachmann, o al suo vissuto con Gisèle Lestrange: il poeta disegna, lasciando un discreto margine all’allusione e alla vaghezza, il ritratto di schizzi astratti, che vivono da soli in un luogo perimetrale fra l’immagine e la parola, un topos che in arte potremmo definire poverista alla J. Grotowski.
I microliti, concreta figura di pensiero, instaurano un confronto fra esseri inanimati e animati, elaborando e illustrando il dato intuitivo. La liberazione della fantasia poetica soggiace a principi di ordine iconico-linguistico: diventa verità, sostanza oggettiva, sebbene pasciuta dei fantasmi individuali di un autore. C’è quindi un grande dinamismo concettuale, una discorsività argomentante, nei testi di Celan, che pure presentano un’intonazione laccata, poiché è spesso presente il versante della similitudine con l’immagine e della metafora con le altre arti, tra significati traduttivi e messaggi transitivi: strutture espressive fondamentali per la comunicazione del proprio sé, immediatamente funzionali alla precisazione del proprio stato d’animo, al racconto delle proprie sensazioni ed emozioni. La stessa ricchezza simbolica dei testi di Celan è illuminata ulteriormente dalla semplicità inesauribile ed originale dell’immagine principe della sua poesia più matura: il rifiuto del silenzio forzato.
Dal 1953 inizia un’oscura vicenda, un’accusa di plagio dalla vedova del poeta Yvan Goll, che per Celan aprirà una ferita ulteriore all’interno del suo percorso, nonostante riesca a scagionarsi. Nella sua fragilità emotiva, vivere un’esperienza di ulteriore persecuzione – infatti la Goll ancora nel 1960, in occasione del conferimento del premio Büchner, pubblica una lettera aperta sul Baubundenpoet che fa il giro delle redazioni -, in cui si sente abbandonato anche dagli amici, fa riemergere le antiche ossessioni legate alla perdita della famiglia, al vissuto da “straniero nella lingua dell’altro” e il collassamento in un’alterità psichica. Celan, offeso dall’accusa di plagio, trasforma la sua parola in un chiarimento della sfera timica, approfittando dei meccanismi di svelamento della pratica poetica per confrontarsi con la sfera della comprensione mediale. La parola e la sua traduzione abitano le profondità della terra, là dove riposa il mistero della vita e della morte, dove stanno riposti gli elementi cosmici originari, le forze della metamorfosi che regna nell’universo e di cui sono un movimento. Fare poesia, in Celan, trapassa in una visione androgina, e culturalmente innovativa, del poeta-grembo, del poeta che sta in ascolto della vita di cui è parte materiale. La parola filosofica di Celan è qualcosa di più che un medium emotivo e verbale: l’essere è sempre sentito sul e nel corpo come un microlite, come un fuoco interno alla materia, come un arnese rovente che tatua con perentorietà e umiltà la carne che vive, del corpo che soffre o prova godimento.
Il sentimento del poeta per la Bachmann è abitato dalla sola poesia: lo è quando è penetrato dalle parole della sua lirica, o avverte i movimenti di una testimonianza che crescono nel ventre: così l’alterità di quell’essere sconosciuto perde astrattezza. «Ci diciamo l’oscuro / ci amiamo l’un l’altra come papavero e memoria». Nel 1948, a Vienna, Paul Celan dedica questi versi alla Bachmann, segnando una tensione spirituale, che in essi prende forma e voce. Il loro è un incontro tra due anime che parlano la stessa, «oscura» lingua della poesia. In Ci diciamo l’oscuro, Helmut Böttiger (Neri Pozza, 2019) ripercorre la storia di un amore tormentato, dell’incontro tra i due poeti fino alla loro «catastrofe parallela», negli anni Settanta. Più dell’immagine filmica o fotografica, la parola scritta dai due poeti, evoca nella fantasia del lettore il profumo ed il calore di una storia calpestata dall’occulto, ma mai privata della trasparenza, tra i microliti e il tempo dilazionato. La corposità di un tempo ormai conquistato nell’autenticità della poesia, contro le ingiurie e le infamie. Il recupero di una dimensione umana e artistica che il mondo dell’immagine sembra aver smarrito.
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