19 marzo 2025

Fare parentela, costruire collettività: intervista alla curatrice internazionale Chus Martínez

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Il Public Program 2025 di BASE Milano ha inizio con una serie di incontri e performance che ruotano intorno al tema della coesistenza sociale e al concetto di fare parentela. Ne abbiamo parlato con Chus Martínez, prima ospite di questa serie di appuntamenti

Chus Martínez, ph.Christoph Bühler

Storica dell’arte, scrittrice e curatrice, Chus Martínez è la protagonista della prima serata di una serie di incontri che fanno parte del programma TALkins –Talking about Making Kins, organizzati da BASE Milano, che vedranno giovedì 20 marzo la partecipazione della chef e nutrizionista Ester Azzola. Il ciclo di eventi prevede una contaminazione tra arte, performance, design, musica e food declinati secondo un fil rouge: quello della coesistenza sociale e culturale e del concetto di fare parentela oltre i legami biologici. Di questo e di molto altro ne abbiamo parlato con Chus Martínez, che anche dal passato – per questa intervista si è collegata dall’Australia con un fuso orario di 8 ore indietro rispetto all’Italia – è riuscita a predire per noi un futuro pieno di possibilità da percorrere.

Vorrei iniziare parlando del tuo talk dello scorso 19 febbraio da BASE incentrato sul concetto di “fare parentela”. Come credi che sia stato interpretato dagli artisti e dall’arte questo tema?

«Abbiamo parlato del concetto di parentela come se fosse qualcosa di nuovo, ma gli artisti in realtà hanno sempre parlato di parentela. La costruzione di una comunità, di un legame famigliare, la possibilità del coinvolgimento pubblico, l’interesse – storicamente parlando – dell’arte pubblica, l’idea di incontrarsi in un’agorà ed essere capaci di creare un dialogo, significa essere capaci di relazionarsi e di costruire parentela. Forse gli abbiamo dato altri nomi, forse non ne siamo stati troppo consapevoli, o forse dobbiamo ricordarcelo perché ci stiamo allontanando da questo concetto, dal momento che ci sono molti nemici del “fare parentela”. Ma non importa se gli artisti ne hanno parlato da un punto di vista personale o in maniera più concettuale, nelle pratiche studio based questo concetto è al centro anche per quanto riguarda il rapporto che si instaura con il pubblico che riceve il lavoro dell’artista. In questo senso ci sono centinaia di versioni della parentela nell’arte, tutte sono possibili e tutte coesistono».

Questo concetto include un senso di collettività, che credo stia emergendo sempre di più, in risposta all’individualismo capitalista. Pensi che in questo senso l’arte possa servire come forma di cura sociale? L’arte contemporanea si sta muovendo in questa direzione?

«Ne parlano in molti ed è una metafora perfetta, ma l’arte è molto più di una cura, è ciò che viene dopo la cura. Immagina di essere malata – e noi tutti a suo modo lo siamo – e riusciamo a guarire – come potrebbe effettivamente accadere – c’è tutta una vita a cui pensare dopo la cura, non si tratta solo di raggiungere questo obiettivo. Di questi tempi tutti parlano di startup, di rigenerazione economica, e trovano modi sempre diversi per creare nuove forme di economia e alimentarle, ma si parla anche di fattorie della democrazia, luoghi di allevamento della democrazia e della libertà. Ho letto che alla Kingston University vogliono chiudere il Centre for Research in Modern European Philosophy (CRMEP), questo è uno dei primi step per chiudere l’intero dipartimento umanistico. È chiaro quindi che non vediamo gli studi umanistici come nutrimento della democrazia, ma in qualche modo dobbiamo allenare le persone a pensare alla democrazia e alla libertà. L’arte è un modo possibile, ma è davvero difficili cercare di sopravvivere da soli. Penso che dovremmo iniziare a pensare all’arte come a un incubatore di libertà, in questo senso va al di là della cura».

Programmazione TALkins –Talking about Making Kins

Di questi tempi la domanda sul rapporto con le nuove tecnologie sorge naturale. Come vedi l’intelligenza artificiale, come un’opportunità o come un problema? E come pensi possa influenzare il tuo lavoro tenendo presente anche il rapporto che può avere con il concetto di parentela?

«Abbiamo parlato dell’intelligenza artificiale come di una tecnologia che stiamo addestrando, abbiamo detto che prende parte del suo nutrimento da internet, ma internet è qualcosa costruito da tutti noi, sono le nostre informazioni, immagini che parlano di noi, i testi che scriviamo, fa parte di noi e della nostra conoscenza. Sta a noi quindi pre-programmarla affinché sia utile nella misura che noi vogliamo lo sia. Vogliamo una tecnologia che funzioni come un colonizzatore? Che colonizzi l’umanità e possa distruggerla come abbiamo fatto con altri nel passato? Questa è una possibile risposta, ma non è la risposta giusta secondo me, non penso che sia per questo che le persone sviluppano queste tecnologie. È anche vero però, che c’è un gran numero di persone che si comportano come se non ci fosse una nostra responsabilità, come se queste tecnologie agissero da sé. Credo quindi che sia necessario un dibattito etico e sociale».

Quindi “la verità” sta nel mezzo…

«Sì, sono tecnologie utili per alcuni aspetti ma non per tutto, non sono la soluzione a ogni nostro problema, ogni strumento ha i suoi limiti e noi dobbiamo capire insieme come usarli, ogni generazione ne farà un uso diverso. Credo che stiamo davvero dimenticando l’approccio umanistico nei confronti dell’IA, ne parliamo come se fossimo solo i ricettori di un discorso che viene dall’ingegneria. Voglio ricordare che Elon Musk, ad esempio, non è neanche un ingegnere ma un imprenditore, e molte delle persone che affrontano questi argomenti non sanno di cosa parlano, la nostra conoscenza è molto limitata e mediata da chi che ne sa tanto quanto noi».

Parlando di collettività, ho letto un tuo articolo dove parlavi di una tua parente che ha organizzato un incontro di gruppo nel suo villaggio e che ha permesso agli anziani di condividere le proprie storie sulla povertà ma anche sulla gioia e l’apprendimento. Questo mi ha ricordato dei rituali collettivi, del ruolo della narrazione, che nel passato, e ancora oggi in alcune culture dove l’oralità prevale sulla forma scritta, crea un forte senso di unità. Pensi che l’oralità, la narrazione e l’ascolto siano un modo di raggiungere un senso di comunità? La dimensione sonora, a suo modo, è più democratica di quella visiva?

«Non penso sia più democratica, ma offre una nuova dimensione di esplorare. Per molti anni siamo stati legati alla lettura, le generazioni più giovani invece fanno più fatica a concentrarsi. È una stanchezza che deriva dai media e dal loro utilizzo, siamo bombardati dalle immagini. Penso che l’oralità sia un modo bellissimo e molto fisico di connettersi e di riconquistare attenzione, interesse e curiosità nei confronti degli altri. Come per ogni altro media però, ci deve essere un programma, vorrei vederlo a scuola, nelle università… le persone hanno bisogno di essere educate anche nel raccontare, non tutti quelli che vogliono raccontare sono capaci di farlo».

Tu ora ti trovi in Australia, lì la dimensione del racconto orale è molto radicata e crea un senso di parentela, le comunità aborigene infatti mappano e raccontano il territorio attraverso la voce e trasmettono questo sapere di generazione in generazione…

«Sì nelle comunità indigene vieni iniziato in questo percorso, devi imparare a ripetere e all’inizio può sembrarti un’operazione molto artificiale. Se non sei abituato a parlare in un certo modo, o a strutturare una storia – perché una storia ha bisogno di essere strutturata – ti perdi. Penso che sarà qualcosa a cui assisteremo molto in futuro».

Chus Martínez, ph. Gina Folly

Qualche giorno fa è stata la Giornata internazionale dei diritti delle donne e mi sono imbattuta in una statistica Eurostat del 2023, che illustrava la percentuale di manager donne. In Italia, ad esempio, si parla del 28% – in Spagna va un po’ meglio con il 34,6% (Chus è spagnola ndr) – queste statistiche sono davvero scoraggianti. Ti è mai capitato di essere discriminata nel tuo lavoro in quanto donna?

«Sì, senza dubbio. Se il mio genere fosse stato un altro in molte situazioni avrei preso alcune decisioni diversamente. Il processo decisionale per una donna è diverso, non che non abbia ottenuto dei lavori, ma è molto più facile se sei un uomo. Ho dovuto dimostrare molto di più il mio valore. È qualcosa che mi mette più in ascolto delle comunità che soffrono per gli stessi motivi, non solo le donne, ma mi rende consapevole dei bias che tutti noi portiamo. Essere oggetto di discriminazione non significa però che io non sia capace di discriminare a mia volta, quindi bisogna sempre essere attenti in questo senso. Impari a conviverci e purtroppo insegni agli altri a farlo. Convivi con il fatto che dobbiamo muoverci verso l’uguaglianza ma allo stesso tempo che devi imparare a vivere nella disuguaglianza, questo affligge molte persone, molte comunità, e non colpisce tutti allo stesso modo, è un dato di fatto».

Sono stata colpita infatti, dal tuo discorso sulla povertà, l’educazione e l’apprendimento. Il mondo dell’arte spesso crea una piramide sociale che è difficilmente accessibile, e nonostante si accumulino titoli ed esperienze, come anche tu hai detto, non è mai abbastanza. Il tuo lavoro raramente viene riconosciuto come tale o ricompensato adeguatamente e anzi, spesso viene visto come un hobby. Questo, almeno in Italia, è un grande problema. Come possiamo decostruire queste dinamiche dal basso e rendere il mondo dell’arte più inclusivo, come dice di essere, e aperto a tutti e tutte?

«Penso che sia una domanda molto complessa, perché dobbiamo andare alle fondamenta moderniste del sistema dell’arte. Nei tempi moderni l’arte ha insistito per essere autonoma, ma per fare ciò ha bisogno di un livello di indipendenza che a volte non è sostenibile all’interno del sistema, o si rivolge solo a certe classi. In questo senso si corre il rischio di una struttura di disequilibri, nella quale solo quelle classi che non hanno bisogno di lavorare o non hanno problemi economici possono competere per questi lavori. Ma penso che la nozione di autonomia non sia sbagliata, perché quando è espressa in modo corretto funziona bene. L’arte deve coesistere con alcuni dei bisogni basilari della nostra società. Quindi sì, dobbiamo trasformare in maniera strutturale il modo in cui lavoriamo. Sappiamo cosa ci serve, probabilmente ci rivolgeremo al mondo della scienza, ne abbiamo parlato prima, penso che dovremmo essere più pragmatici e mettere in collegamento l’ambito artistico con altri settori dello sviluppo sociale».

Per chiudere, e anche per offrire ulteriori spunti relativi alla nostra conversazione, mi piacerebbe chiederti se puoi consigliarci tre libri relativi a ciò di cui abbiamo parlato sino ad ora.

«Dal momento che sono in Australia mi piacerebbe consigliare qualche libro del posto. Uno è Dropbear di questa poetessa indigena molto giovane che ho appena scoperto, Evelyn AraluenMykaela Saunders invece, con This all come back now: an anthology of First Nations speculative fiction, mette insieme storie di persone indigene dell’Australia, sono entrambi straordinarie. Infine vorrei consigliare un libro che non è nuovo, ma è davvero bello, di Erin Manning intitolato The Minor Gesture. È bello condividere qualcosa che viene dall’altra parte del mondo».

Qui il programma completo di TALkins da BASE Milano.

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