Nessun artista stenta a trovar pace come Caravaggio. Dopo la “riscoperta” longhiana, storici e critici ne hanno fatto uno dei pittori più noti ed amati del nostro tempo. Un interesse che ultimamente sembra però degenerato in un fanatismo privo di scrupoli filologici, con esiti discutibili e perfino controproducenti: data in pasto al grande pubblico con una mole sterminata di saggi e romanzi, la vita del Merisi diventa spesso la turbolenta epopea di uno spadaccino bisex tutto “genio e sregolatezza”; le scoperte (vere o presunte) di opere o documenti si susseguono con ritmo vertiginoso e – come già lamentava un paio d’anni fa Maurizio Calv
Formidabile prodotto di merchandising, il lombardo garantisce folle di visitatori, come dimostra la “mostra virtuale” che, dopo Castel Sant’Elmo a Napoli, ha registrato un autentico boom nella trasferta capitolina di Castel Sant’Angelo (prorogata al 14 marzo).
Per l’occasione, Dario Fo ha ideato “Caravaggio al tempo di Caravaggio”, lezione-spettacolo tenutasi a dicembre nell’Auditorium di Roma e trasmessa su Rai Tre lo scorso 23 febbraio (naturalmente, ad un orario proibitivo: 23:30).
Accanto ad alcuni meriti – l’approccio storicistico, la disamina prospettica e compositiva dei quadri, le citazioni di Carrà e Funi – la pièce solleva però qualche perplessità e non bastano le indiscutibili doti istrioniche e affabulatorie del Nobel a farne una lectio magistralis e a tacitarne alcuni “sfondoni”, come direbbe lui.
Innanzitutto, Fo crede di risolvere con un perentorio “sì” la vexata quaestio dei disegni caravaggeschi. Senza addentrarsi troppo nella diatriba, va rilevato che questa teoria contraddice testimonianze che vogliono il Merisi seguace della maniera “veneta” (con
Peccato veniale, comunque, in confronto alla marchiana confusione che alberga nella sua testa relativamente alle due versioni del “San Matteo” per San Luigi de’ Francesi. Fo si affanna a narrare la storia del “gran rifiuto”, senza accorgersi che il quadro mostrato – con l’Angelo che enumera al pubblicano “testone” i Dieci Comandamenti (sic!) – non è quello rispedito al mittente (e subito acquistato da Vincenzo Giustiniani) perché mostrava indecorosamente il santo “con le gambe incavalcate e co’ piedi rozzamente esposti al popolo”, ma la tela tuttora in loco. D’altra parte, il primo San Matteo non è andato distrutto a Berlino nel 1945? Ma forse le immagini non sono la specialità della ditta Fo&Rame, lesti ad infilare riproduzioni di Georges de La Tour e Velazquez nella parentesi sui maestri e conoscenti di Caravaggio.
Inoltre, il drammaturgo asserisce di aver letto decine di testi sull’argomento, ma bisogna lambiccarsi il cervello per risalire alla fonte di un colorito episodio partenopeo, con Caravaggio imprigionato per un equivoco dagli spagnoli avidi e burloni, che lo costringono a dipingere ben tre tele. L’ipotesi è che l’aneddoto sia frutto di un fantasioso medley di fonti: un documento, pubblicato da Sandro Corradini, in cui si parla di imprecisato “bandito famosissimo” ricercato a Napoli, che lo storico identifica con il pittore; lo scambio di persona presumibilmente avvenuto a Palo, dove il Merisi “restato in pregione, si liberò con un’sborso grosso di denari”; le lettere rinvenute da Vincenzo Pacelli nell’Archivio Segreto Vaticano, in cui sono menzionate tre opere caravaggesche (i due San Giovanni e la Maddalena) che una feluca nel luglio del 1610 riportò a Napoli, dopo la scomparsa dell’artista.
E gli “sfondoni” non risparmiano il soggiorno a Siracusa, dove il
E passi, ancora, per Ranuccio Tomassoni, chiamato costantemente “Ranucci” (vezzeggiativo?), passi per quell’aggettivo “conterraneo” appioppato a Correggio. Transeat pure per il tavolo da architetto col quale il piccolo Michelangelo familiarizzò grazie al mestiere paterno (peccato che Fermo morisse di peste quando suo figlio aveva appena cinque anni e, per giunta, da tempo non abitava più coi genitori a Milano) o per il teatrino delle marionette che il Merisi organizzava con gli irrinunciabili “pupazzi” (anche se i biografi antichi, magari per denigrarlo, scrissero che dipingeva solo “al naturale” e se molti modelli ricorrono palesemente in più dipinti, come la bella Fillide e la “Pero” delle Sette Opere).
Ma di fronte al David Borghese, probabilmente in piena sindrome di Stendhal, Fo inizia a delirare in maniera preoccupante, prendendo addirittura a declamare – con regolamentare pathos – una lettera allegata al quadro e indirizzata a Sua Santità Paolo V Borghese, in cui Caravaggio impetra il perdono e la grazia per l’omicidio di Campo Marzio (grazia, ovviamente, giunta “nel momento stesso” della morte del tapino, ma mai ritrovata). Davvero toccante… ma dov’è questa missiva? Sarà il solito “mistero buffo”?
anita pepe
[exibart]
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Non so perchè c'è fra la gente questo strano sport... Eppure io mi rammarico con me stesso di non farmi capace di comprendere le parole del critico in questione in modo assai facile...
Concordo con il commento su riportato.
E' troppo facile, da parte di chi come noi cultori della materia ha il tempo di vivisezionare lo show di Fo e poi ha il tempo e la missione di ricercarvi e verificarne con l'aiuto di ponderosi saggi sull'argomento l'entità delle imprecisioni. Chi fa 100.000 cose nella vita (tra le quali creare questa pièce di emozionante divulgazione culturale) fatalmente è + esposto ad errori rispetto agli eruditi della materia. Inoltre vorrei rimarcare l'oscurità e la noia dell'articolo della Pepe, che fallisce a mio parere l'obiettivo di farsi leggere fino in fondo ed anche quello di spiegare, in modo da farle capire, le inesattezze dette da Fo.
La lettura caravaggesca di Dario Fo, pur essendo imprecisa va comunque letta come un'interpretazione romanzata, teatralizzata, della vicenda biografica del grande artista lombardo. Per cui il peccato di Fo può dirsi veniale rispetto a tanti storici dell'arte che ne hanno dette di imprecisioni riguardo al Caravaggio, spesso inventandosi un personaggio del tutto immaginario. L'importante, però, è parlarne, anche "abusarne": l'operazione di Fo è un'operazione teatrale, non soggetta a rigori filologici perché è fantasia creatrice in atto, è arte in atto. Quello che è grave è che oggi la civiltà delle "immagini" multimediali, pubblicitarie e simili, ha fatto perdere il senso del valore della storia delle immagini, il senso della corretta lettura del testo pittorico, grafico, ecc. Manca una corretta educazione visiva: questo è quello che va sottolineato con vergogna, soprattutto da parte della scuola e delle università italiane, per colpa di un sistema dell'istruzione cieco e sordo alla vera civiltà artistica. Così si distrugge il nostro patrimonio: è l'ignoranza e la complice inerzia della scuola a fare in modo che non capiamo più i veri valori dell'arte, in senso generale. E lo vediamo anche nei mass-media che, come al solito, trasmettono programmi di una certa importanza e di un certo impatto culturale ad orari veramente vergognosissimi. Allora dobbiamo dire che viviamo nell'inciviltà dell'immagine. Quindi non prendiamocela con Dario Fo che, grazie alla propria arte, ha saputo regalare all'Italia un prestigioso premio Nobel; ma una certa parte del potere politico italiano, come al solito, ringrazia i suoi figli migliori censurandoli o "esiliandoli" intellettualmente. La vera cultura fa paura al potere perché nessuno può imbavagliare la verità e lo spirito critico, la libertà e la dignità umane. La storia è vecchia, ma sempre attuale: Dante lo insegna. Gerardo Pecci, Storico dell'Arte.