Prosegue il nostro “FOCUS curatori”, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La nuova puntata della nostra rubrica ha per protagonista Elisa Carollo.
Come ti definiresti?
«Nel tempo ho compreso come il mondo dell’arte richieda una certa flessibilità creativa di funzioni e ruoli, che mi sono trovata più volte a cambiare o a far coesistere. A oggi, mi definisco innanzitutto Art Advisor e connector, per il ruolo di consulenza a più livelli che svolgo nel sistema, sia per collezionisti, fondazioni che per gallerie. Di recente il mio rapporto con le gallerie si è intensificato, assumendo una posizione da co-direttore in una galleria di Brooklyn con cui collaboravo già, nel delineare strategie per giovani artiste che volevo portare fuori dagli Stati Uniti. Al contempo, nell’ultimo periodo sto svolgendo un’attività più dichiaratamente curatoriale, sia in progetti affidatemi in prima persona in vari contesti, sia all’interno di team curatoriali, come per l’Italia Pavilion all’ultima Biennale di Gwangju (Sud Corea) e per la prima edizione della Malta Biennale 2024».
Dove sei nata e dove vivi?
«Sono nata nel “profondo Veneto”, a Thiene. Cresciuta come donna e professionista direi più nel periodo a Milano. E, dopo alcuni tentativi, ora vivo e lavoro in pianta stabile a New York».
Dove vorresti essere nata e dove vorresti vivere?
«Sono abbastanza contenta del percorso fatto per ora, che mi ha permesso di maturare gradualmente varie consapevolezze sul mio ruolo nel mondo dell’arte, e di guadagnarmi progressivamente qualcosa a cui, inizialmente, non potevo nemmeno aspirare, nel contesto in cui sono partita. D’altra parte, non penso che New York sia necessariamente la tappa finale. Sono molto attratta dal dinamismo e dalla voglia di apertura internazionale che ho riscontrato di recente nel contesto asiatico, in particolare a Hong Kong, in Corea e, perfino, in Giappone. Tokyo rimane un’altra città nella quale vorrei provare a realizzare qualcosa, a un certo punto della mia vita».
Quando hai capito che ti interessava l’arte?
«Sono sempre stata una persona molto curiosa e attratta soprattutto dai saperi umanistici, fra letteratura, filosofia, psicologia, sociologia e, ovviamente, arte. Quando ho iniziato a interessarmi più all’arte contemporanea, ho capito che lì poteva esserci un buon mix di tutti questi saperi, e che non avrei mai smesso di imparare, di scoprire e avere spunti da approfondire, anche solo leggendo comunicati stampa o dialogando con gli artisti. Penso però di aver iniziato a capire cosa fosse il mondo dell’arte contemporanea solo quando ho iniziato, a 16 anni, a trascorrere l’estate per studi linguistici a New York, a vagare da sola per Manhattan tra gallerie dove poter entrare e scoprire nuove narrative. Quello dell’arte contemporanea mi è sembrato, fin da subito, un contesto più democratico… Anche se poi, quando ho iniziato a frequentare il mondo delle gallerie a Milano, ho scoperto che in realtà si tratta di un sistema in cui è difficile entrare, se non sei in qualche modo già dentro, magari per collegamenti di famiglia. Un po’ alla volta, mi sono fatta strada. L’arte è sempre stata un rifugio per me, e fonte di forza e compagnia in momenti difficili o in cui mi sono trovata da sola: ho scoperto progressivamente in essa una comunità da incontrare, con cui connettermi potenzialmente in tutto il modo».
Quando hai deciso che avresti fatto la curatrice?
«Penso di non averlo mai deciso, in realtà. L’unica cosa che ho sempre voluto è di essere una figura attiva nel settore capace di creare valore a vari livelli».
Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatrice?
«Tanti sono i libri letti nel tempo, sia per studi che per interesse, che hanno fatto progredire la mia consapevolezza dell’arte contemporanea, come poi della critica, curatela e del mercato. Difficile da ricordare ed elencare qui. Considero e consiglio sempre come una bibbia per l’arte contemporanea Art since 1900 di Hal Foster, Rosalind Krauss, Yve-Alain Bois, Benjamin Buchloh. Illuminante è stato anche Changing essays in art criticism di Lucy R. Lippard. Come poi è stato decisamente influente per me l’approccio ai visual studies fra fenomenologia, psicologia e antropologia dell’immagine di Didi-Huberman. Dalla Pittura incarnata alla Sopravvivenza delle immagini, solo per citarne alcuni. Boom di Michael Shnayerson è, invece, un testo che consiglio spesso per avere una panoramica completa delle storie e dei percorsi dietro ai principali protagonisti del sistema dell’arte contemporaneo».
Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?
«Ogni artista e progetto richiede di fare riferimento a varie fonti, che possono andare da testi filosofici a quelli di geopolitica e attualità. Dipende dalle varie narrative che il progetto interseca. Nutro particolare interesse sulle modalità di approccio dell’arte, in quanto prodotto umano fra fenomenologia, psicologia e visual studies, di autori-filosofi come Lacan, Merleau-Ponty e, appunto, Didi-Huberman».
Qual è la mostra che ti ha segnata e perché?
«Probabilmente una delle prime biennali di Venezia che ho visitato, permettendomi davvero di capire la multidimensionalità che abbraccia oggi l’arte contemporanea. Poi, penso che la prima volta che visitai il MoMa con una personale di El Anatsui, ho compreso l’ambizione che possono avere i progetti».
Qual è l’opera d’arte che ti ha avviata nei sentieri della professione nelle arti visive?
«Di istinto direi che il Sanatorium di Pedro Reyes mi ha aiutata a comprendere il ruolo, anche sociale e terapeutico, che può ricoprire l’arte, aldilà della presenza oggettuale o materiale».
Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?
«Penso che ogni artista che ho incontrato e con cui ho lavorato mi abbia aiutato in qualche modo a espandere la mia consapevolezza di quello che può essere l’arte contemporanea oggi».
Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?
«Sarà scontato, ma la figura che considero un punto di riferimento del mio percorso, in termini di qualità di progetti curati e di rispetto ottenuto nel corso del tempo, anche in ambito internazionale, è Cecilia Alemanni. Di recente apprezzo il lavoro di tanti curatori che stanno spingendo il discorso artistico verso il recupero di saperi ancestrali e spiritualità alternative, che riportano l’arte a una dimensione più transculturale, universale e umana, come ha fatto Sook-Kyung Lee nell’ultima Biennale di Gwangju. Apprezzo poi il lavoro curatoriale nell’ambito della scoperta e della voce data a forti narrative del mondo latino americano e caraibico, da parte di figure come Cesar Garcia, Bernardo Mosqueira e Rodrigo Moura».
Con quale progetto hai iniziato a definirti curatrice?
«Diciamo che non ho creduto di potermi definire curatrice, fino a quando non mi è stato assegnato ufficialmente questo ruolo, con una retribuzione. Il primo tentativo è stato in Fondazione Imago Mundi, con Italian Twist, una survey dedicata alle ultime generazioni dell’arte italiana. In genere però sono stata dietro a tanti progetti, più come facilitatrice e connector, senza necessariamente firmali con il mio nome».
Qual è la tua definizione di curatore?
«Penso che il termine stesso “curatore” sia già abbastanza significativo rispetto alla definizione del ruolo: curare, prendersi cura di un progetto vuole dire innanzitutto prendersi cura dell’artista, affinché la sua visione e il suo messaggio sia presentato propriamente, sulla base sempre del budget messo a disposizione e delle varie esigenze delle parti coinvolte. Questo si traduce spesso in un ruolo ibrido e fluido, che rende particolarmente rilevante innanzitutto la funzione di mediazione, connessione e di facilitazione dei processi, affinché un progetto artistico possa trovare realizzazione».
Qual è la tua giornata tipo?
«Varia molto. In genere tante call e scambi via messaggio e via mail. Tante conversazioni e confronti, per rendere possibili i progetti fino a quando si giunge all’atto pratico di allestire, preparare i materiali di comunicazione, gestire il budget, etc.».
Hai dei riti particolari quando lavori?
«Soprattutto di fronte alla pressione crescente nell’ultimo periodo e all’attività multitasking che svolgo fra vari ruoli e progetti, ho capito l’importanza di un rituale mattutino di cura di me stessa, per iniziare a mente fresca: esercizio fisico, yoga e colazione, leggendo notizie dal mondo dell’arte».
C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?
«La flessibilità mentale è assolutamente necessaria in questo lavoro».
Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?
«Molti dei temi di cui mi sto interessando nell’ultimo periodo, da spiritualità ancestrali, saperi antichi e modelli alternativi di coesistenza fra specie, sono emersi nel Padiglione Italia a Gwangju realizzato grazie all’Istituto Italiano di Cultura di Seoul, dove sono stata parte del team curatoriale con Sofia Baldi Pighi, sotto la direzione artistica di Valentina Buzzi».
A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?
«Pressoché inesistente. Come in generale anche all’estero. Penso che l’esercizio avviato da Gian Maria Tosatti però con la Rivista di Quadriennale Quaderni d’Italia e, poi, il progetto Panorama sia stato un importante passo in avanti per avere dei contribuiti più significativi di riflessione sullo stato dell’arte italiana».
Quali sono i tuoi riferimenti critici?
«Nel panorama attuale, non saprei individuarli».
La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?
«Recentemente a essere ambiziosi, forse la Biennale di Gwangju o l’ultima personale di Wangechi Mutu al New Museum».
Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?
«Ho ancora molto da imparare e da dimostrare per affermarmi a certi livelli, in ambito non solo nazionale, ma soprattutto internazionale».
Progetti in corso e prossimi?
«Con la Fondazione Imago Mundi sto lavorando a un importante progetto sulla scena contemporanea cubana, e a un altro, molto provocatorio e attuale, che stiamo studiando.
Prosegue per tutto il 2025 la mia collaborazione con la Galleria Poggiali per il loro programma nello spazio di Milano che comprenderà personali di interessanti giovani talenti statunitensi, molti dei quali in questa occasione saranno presentati per la prima volta in Italia.
Infine, varie circostanze mi hanno portato a unirmi a una galleria, Swivel Gallery, affermatasi in poco tempo come piattaforma di scoperta e promozione di giovani artisti emergenti. Ora che la galleria ha preso possesso, in una sorta di passaggio simbolico, l’ex location di CLEARING a Brooklyn, abbiamo uno spazio enorme a disposizione per tanti entusiasmanti progetti, con due o tre mostre al mese. Vedo questo mio nuovo ruolo in una galleria come un’opportunità per presentare nuovi artisti negli Stati Uniti, e per lavorare su temi e narrative che ritengo rilevanti nel nostro tempo».
Chi è Elisa Carollo
Elisa Carollo (Thiene, 1995) è consulente d’arte, curatrice, scrittrice d’arte e valutatrice conforme alla normativa USPAP, con un focus specifico per l’arte contemporanea e ultra contemporanea. Ha conseguito un Master in Art, Law, and Business presso Christie’s New York e una laurea in Marketing e Management delle Industrie Culturali e Creative presso l’Università IULM di Milano.
Dopo 8 anni di attività nel settore dell’arte e un’esperienza presso la società internazionale di art advisory Gurr Johns e un family oce a Milano, Carollo è attualmente co-direttrice della Swivel Gallery, una galleria con sede a New York che espone una vasta gamma di pratiche di artisti provenienti da tutto il mondo. Tuttora è consulente della Fondazione Imago Mundi della famiglia Benetton a Treviso per i progetti e le relazioni internazionali, e in precedenza ha co-diretto e curato il programma di Pintô International, l’avamposto newyorkese del più importante museo di arte contemporanea delle Filippine. Tra i suoi progetti curatoriali più recenti, ha fatto parte del team curatoriale dell’edizione inaugurale della Biennale di Malta 2024 e del Padiglione italiano alla XIV Biennale di Gwangju nel 2023. Elisa Carollo cura e consiglia gallerie in Italia per il loro programma. Attualmente è anche Arts Reporter per Observer e scrive regolarmente di arte e del suo mercato per Il Giornale dell’Arte (The Art Newspaper Italy, by Allemandi) e Collezione da Tiffany, tra gli altri. Recentemente ha fatto parte del gruppo curatoriale della Fondazione Quadriennale per il monitoraggio della scena artistica contemporanea italiana. Elisa Carollo è membro di IKT (International Association of Curators of Contemporary Art).
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Interesante para mi un artista, y gestor cultural "ousidert" conocer "il pensiero" de gente más joven enmarcada en los ámbitos y espacios, más establecidos del arte. Viví muchos años en Europa y otros en EEUU. algo conozco del tema.
Posiblemente no leen esto, pero si les interesa pueden poner mi nombre en Google con uno o los dos de mis apellidos y saber al menos algunos de mis antiguos o actuales proyectos. Pequeños y sobrios, pero con artístas jóvenes y otros de larga trayectoria. Actualmente lo desarrollo en el ámbito de una Librería y café Cultural. Librería Minerva, y Café Cultural "Casa de Abajo", a quienes por cierto reenvié el artículo del Café Cultural en Roma que vosotros han publicado. Saludos.