Categorie: Personaggi

Fragile, fragilissimo eppure potente

di - 7 Ottobre 2016
Usa semi, fili d’erba, crini di cavallo per sculture che sono organismi autonomi, ma appaiono anche come cuscini, bozzoli, tessuti, architetture. Christiane Löhr è la vincitrice del XIX Premio Pascali e ed è in mostra nel museo di Polignano a Mare con una personale a cura di Rosalba Branà, Dobrila Denegri e Antonio Frugis. L’abbiamo incontrata in questa occasione.
Partiamo dal suo “sentimento della natura”.
«È stato sempre così, da bambina mi sentivo vicina agli elementi naturali. Si è rafforzato anche perché ho avuto un cavallo e naturalmente ero sempre fuori, all’aria aperta. Quando ho cominciato a studiare arte, dopo le prime esperienze, piano piano ho scoperto i materiali che avevo ogni giorno nelle mani e ho trovato la mia strada».
Le sue opere sono fragili, volatili, hanno spesso una scala piccola, ma nello stesso permangono e occupano uno spazio riconoscibile.
«Noi camminiamo dentro uno spazio e anche se i lavori sono piccoli, si può avere la sensazione di attraversarli, allora cambia la loro dimensione e appaiono giganteschi. Spazio e scultura diventano un’entità unica. Seguo la loro logica ma il risultato che raggiungo è vicino a qualcosa che conosco, alle architetture induiste, islamiche, alle visioni dei Paesi che ho attraversato durante i miei viaggi. Gli elementi naturali hanno una loro specifica capacità ed io sperimento le loro possibilità. Per esempio, quando uso i fili d’erba, cerco quelli che hanno l’angolo giusto, perché ogni gambo ha un suo posto che non può cambiare. Tutti gli elementi esigono un’accuratezza particolare e il lavoro implica una concentrazione totale, non è possibile staccare, allontanarsi, e questo mi piace molto perché ha un ritmo che non si può cambiare».

Come seleziona i materiali?
«Sono, di fatto, elementi che ognuno di noi conosce e riesce a capire. Possono essere il frutto di un ritrovamento casuale e possono restare nel mio studio alcuni anni prima che decida di utilizzarli. Non esiste una regola ma una relazione molto intuitiva. È una sperimentazione, ma non c’è un sistema, tutto nasce molto naturalmente. A volte, se ho in mente un lavoro grande, li cerco in posti che conosco da tanti anni».
Nelle campagne tedesche e toscane dove lei vive?
«Non necessariamente, anche nelle periferie urbane, nel centro delle città. Non sono elementi che richiedono una natura intatta e li raccolgo in luoghi molto fragili.  E poi ogni materiale porta il suo colore, lo accetto, non lo cambio, ma quando installo i lavori, creo un equilibrio, una rete invisibile che li collega e li fa funzionare».
Il suo lavoro si muove su scale molto diverse.
«Seguo regole che mi portano a determinati risultati e vanno dal micro al macro. I lavori con i crini nascono dal fatto che ho vissuto a lungo con il mio cavallo, ma anche qui c’è qualcosa che si muove tra molteplicità e unicità. Tanti fili tessono una trama che non è più divisibile. Il materiale e la sua lavorazione generano un mondo che già conosciamo come, ad esempio, le decorazioni dell’arte islamica»».

Si percepiscono il tempo, la lentezza della realizzazione.
«Ci vuole tempo e concentrazione ma questa è una dimensione che mi piace. C’è sempre qualcosa dentro di me che mi tira verso il risultato. Comprendo un lavoro solo quando faccio l’ultimo gesto. È un processo per me molto interessante, posso lavorare tanto ma solo l’ultimo tocco rende il lavoro veramente compiuto».
La natura ecologica e romantica delle sue opere ha a che fare con la sua formazione tedesca?
«Per alcuni aspetti io li vedo come lavori rigidi, in cui sono presenti elementi opposti: grande e piccolo, forte e fragile. Comunque anche se l’ecologia per me è una parte importante, non è mia intenzione fare un lavoro ecologico, non potrebbe funzionare».
E l’opera prodotta per questa mostra?
«Mi sono riferita a un lavoro del 2000, realizzato a Parigi con una borsa di studio. Ero rimasta affascinata dalla ceramica asiatica e avevo lavorato con la creta. Questo è stato il punto di riferimento ma l’opera finale sarà in bronzo ed è stata pensata per rimanere in permanenza sulla terrazza del museo».

È stata allieva di Kounellis e oggi ha vinto il Premio Pascali.
«Studiare con Kounellis è stata un’esperienza forte e molto interessante ma certamente avevo già trovato la mia strada che nasceva da una ricerca intima. Da giovane sono stata attratta dai lavori dell’Arte Povera con cui sentivo un’affinità. Credo che vediamo e sentiamo qualcosa solo perché riflette ciò che è già dentro di noi, è l’emozione che dobbiamo seguire e questo aspetto è stato decisivo per la mia strada.  Per me il lavoro di Pino Pascali è diretto, molto vitale, pieno di energia ed è interessante che la sua scala sia opposta alla mia. I suoi sono lavori giganteschi, i miei spesso sono piccoli, ma l’energia è la stessa, c’è un rapporto diretto con i materiali ed entrambi hanno bisogno di una concentrazione completa da parte di chi guarda».
Marinilde Giannandrea

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