Ci sono alcune figure familiari della critica d’arte che reputiamo immortali, quasi sovrastoriche o sovratemporali: forse perché sempre presenti nei nostri studi o perché individuate, in un’idea comune a tutti, come guide nel campo largo della riflessione. Germano Celant, scomparso nel giorno del suo compleanno (era nato a Genova il 29 aprile 1940), è stato e resterà per molti una di queste: e bisogna ammettere che sarà difficile riaprire un suo libro, un catalogo di una mostra o quello generale di un artista da lui curato, senza pensare, con un po’ di dispiacere, che il suo autore – così brillante e vivace – non sia più tra di noi.
Da giovane giornalista, quando ancora si occupava di arte e letteratura e teatro sulle pagine del quotidiano «Il Lavoro» e quando era nella segreteria di redazione del «Marcatrè. Notiziario di cultura contemporanea» fondato da Eugenio Battisti nel 1963 (stesso anno in cui proprio con Battisti si è laureato), Celant aveva già mostrato una spiccata versatilità e una particolare attitudine di entrare in sintonia con gli artisti del momento: inclinazione che lo spingerà a inoltrarsi ben presto nel campo della critica d’arte dove, davvero precocissimo, ha elaborato un prezioso programma operativo, dando vita a uno dei principali movimenti artistici del secondo Novecento.
A soli 27 anni, nel 1967, a Genova, sua città natale, con la mostra “Arte povera e IM spazio” organizzata alla Galleria La Bertesca dal 27 settembre al 20 ottobre, aveva equipaggiato di nome e di identità la sua visione critica (la sua arte povera è, a mio avviso, ripresa e analisi logica degli assunti antirinascimentali messi in campo da Battisti) che, dopo una serie di esposizioni (antesignana fu però “Fuoco, Immagine, Acqua ,Terra” alla galleria l’Attico di Fabio Sargentini a Roma, nel giugno 1967) viene internazionalizzata con la terza rassegna di Amalfi: “Arte povera più azioni povere”.
Intellettuale legato ad un circuito che elogia la «fusione e la confusione delle arti», ideatore appunto dell’Arte Povera, di una complicità generazionale («avevamo un’idea ottocentesca, romantica, dell’arte e della qualità, applicate al design o alla moda»), di una dimensione fluida e mobile della creatività che intreccia l’arte ai brani irrequieti e fragili della vita, Celant ha proposto, sin dalle sue prime imprese critiche, un decentramento costruttivo, uno spostamento assorbente che porta a una visione integrale delle arti, a una comunicazione e a una interconnessione (una «molteplicità di innesti», ha suggerito lui stesso nel suo Artmix. Flussi tra arte, architettura, cinema, design, moda, musica e televisione del 2008) che investiga via via tutte le varie declinazioni della cultura visiva. Dall’introvabile volume OFFMEDIA. Nuove tecniche artistiche: video, disco, libro (edito da Dedalo di Bari in occasione della mostra “OffMedia 1” del 1977 – da quest’anno c’è anche l’America, ma l’America e il sistema Guggenheim, lo sappiamo, sono un’altra cosa) al progetto “VERTIGO. Il secolo di arte off-media dal Futurismo al web”, l’esposizione inaugurata il 5 maggio 2007 (e visitabile fino al 3 novembre) al Museo d’Arte Moderna di Bologna, Celant ci ha insegnato, e non come professore universitario ma come storico e come critico militante, che il Novecento è uno sconfinato sconfinamento di tecniche e di stili, nel campo delle arti come in quello della comunicazione e dei mass-media.
Negli ultimi tempi l’«operare caldo con gli artisti» legato agli anni Sessanta e Settanta e Ottanta del Novecento, aveva lasciato il posto «all’esporre freddo con gli architetti», a una visione della mostra intesa come congegno riflessivo, come luogo in cui la storia è possibile guardarla negli occhi, come ambiente nel quale rifare, riorganizzare, riproporre alcuni eventi degni di nota e alcune importanti vicende artistiche del passato recente.
Forse la più grande lezione che Celant lascia oggi a quanti del mondo dell’arte lo hanno visto come un maestro da seguire, è proprio questa doppia linea: una visione democratica delle arti, uno spazio egualitario dove ogni singolo linguaggio è parte di quell’ampio ingranaggio di interessi umani e un discorso storico critico dell’arte che trova nell’esposizione il dispositivo privilegiato attorno al quale ragionare e nel quale porre fiducia per ripensare il campo della didattica, dell’educazione.
«Il mio percorso è segnato da un’impostazione storica, inculcatami all’università da Eugenio Battisti, per cui l’attenzione analitica poteva riversarsi su qualsiasi soggetto artistico, dagli orologi alle streghe, dagli automi a Brunelleschi», aveva ricordatoin una conversazione tenuta con Stefano Casciani e pubblicata sul numero 940 di Domus (ottobre 2010). «Pertanto ho subito impostato il mio fare su un’indagine a trecentosessanta gradi che poteva spaziare dall’arte al design, fino all’architettura. Questa visione paritetica è anche conseguenza dell’essere stato, per diversi anni, il segretario di redazione della rivista Marcatré, nata nel 1963 a Genova e poi trasferita a Milano, in cui venivano accostati i diversi linguaggi dell’architettura, dell’arte, del design, della musica, della letteratura… sotto le direzioni di Portoghesi, Battisti, Carpitella, Calvesi, Eco e Gelmetti, Sanguineti», Dorfles e Menna: «L’interesse per la crosspollination tra le arti nasce allora».
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Caro Antonello articolo interessante e ben costruito . Volevo però precisare che la mostra Fuoco Immagine Acqua Terra è stata accompagnata da due testi di Maurizio Calvesi e Alberto Boatto , e Celant non c'entrava nulla.
Ciao Ludovico, grazie tante: è stata davvero una mia grossa svista notturna. Assieme alla mostra organizzata da Sargentini (conservo gelosamente una copia del catalogo) nel periodo avevo tra l’altro inserito anche quella processuale curata da Daniela Palazzoli (Con temp l’azione) tra le gallerie Galleria Christian Stein, il Punto e Sperone. Il periodo che ho articolato, nel limare e ridurre, è diventato un incidente - fortunatamente rimediabilissimo - di percorso.