Sfoglio le immagini fantastiche delle mostre curate da Germano Celant che ho avuto la fortuna di vedere. Caspita, che complessità ogni volta! Che tocco di genio, più di tutte quella sul post Futurismo alla Fondazione Prada di Milano, ma anche quella sulla musica e l’ultima di Kounellis. Che capacità di scrittura, che sapienza nel far parlare le opere! Accostamenti e allestimenti che non ti aspetti. Estro, fantasia, intelligenza. Un pezzo che da solo vale una sala e, accanto, uno ancora più potente. Dove e come li trovava? Ci siamo sempre chiesti. Certo budget a tanti zeri di cui ha beneficiato fanno la differenza. Ma non bastano. Perché Celant era grande e complesso anche nella scrittura. Era un maestro nel connettere e governare il pensiero, aprendo scenari che semplicemente prima non esistevano: visivi, e critici. Nei casi meno felici, manifestava un sapere onnivoro, come è stato con la mostra sul cibo alla Triennale, che ti sovrasta, ti eccede, ma non è mai banale. Solo troppo.
Eppure Celant ha incarnato una misura e una visione nel curare le mostre, quella misura e visione che fanno di una mostra l’espressione di un pensiero critico. Ma con le “figure”, direbbe un bambino. E quindi attraente, seducente come solo le immagini sanno essere.
Ho amato le mostre di Germano Celant, penso che tutti le abbiamo amate. C’era sempre qualcosa da imparare. Meno, forse, si amava lui. Quest’omone imponente, anche se non particolarmente alto ma massiccio, che incuteva un po’ di timore, che a volte ti salutava, altre volte ti sorrideva e ti parlava e altre volte non ti salutava affatto. Perché? E chi lo sa. Ma guai a prendersela, era Germano Celant. Al massimo era consentito mormorare qualcosa a un amico vicino, appena lui girava la testa. La prima volta che ci ho parlato è stato molti anni fa, al telefono. Non ricordo l’argomento, lui era già un curatore famosissimo, era stato al Guggenheim di New York, io ero una giovane e inesperta collaboratrice dell’Espresso. Fu paziente e indulgente. E, da allora, ha avuto origine quella cordialità asciutta e lievemente intermittente.
Accanto alle mostre mi vengono in mente i suoi incendiari “Appunti per una guerriglia”, parole che oggi risuonano ancora più necessarie: essere asistematici quando tutto intorno è sistema, forgiare un’arte vera, disobbedire, cercare e trovare un’altra via, opporsi con la forza dell’arte al mondo, il nuovo ordine dell’arte contro il disordine del vecchio mondo. Idee che in quel lontano 1967, un anno prima che esplodesse un movimento capace almeno per un tratto di incarnarle, apparivano rivoluzionarie perché rivolte al futuro e al di là della storia. La loro forza, e la forza dell’Arte Povera, stava nella capacità di prefigurare un mondo altro. Oggi hanno uno strano e debole sapore di necessità – ma ambigua, poco chiara – il bisogno di pensare a un nuovo ordine contro il disordine del mondo. Sono ancora attuali, ma inattuali insieme. Non guardano al futuro, ma sono rivolte a correggere il passato.
Germano Celant è stato il più grande critico e curatore che l’arte italiana abbia avuto nella seconda metà del Novecento, ma non ha eredi. Come per alcuni veri protagonisti della scena culturale, gli si riconosce il titolo di Maestro, ma in assenza di allievi. Celant non ha fatto scuola. Ha inventato l’Arte Povera che, da guerriglia, molti anni dopo è diventata sofisticata merce per il mercato, monopolizzando fino ad oggi la conoscenza dell’arte italiana all’estero. Ha fatto vedere a tutti come si cura una mostra, ma non ha insegnato a nessuno a fare come lui. Qualcuno parla di scarsa generosità, di protagonismo viscerale che sbarrava la strada a chiunque cercasse di frapporsi tra lui e i territori dell’arte, tra lui e i favori del bel mondo dell’arte che si era conquistato. Non sono in grado di esprimere un giudizio.
Ma più vero è che non si vedono, non sono nati pensieri, e pratiche, altrettanto forti come lo sono stati i suoi. E di questo i maestri hanno sempre parte della colpa. Perché l’intelligenza, la necessità del futuro a volte sono chiamate ad andare contro, a guerreggiare, anche contro i padri. Esattamente come ha scritto lui.
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Verissimi, Germano non lascia figli nell‘arte.
Celant è stato l'espressione del "SISTEMA", quel sistema che oggi, durante questa crisi, viene messo sotto accusa da tantissimi operatori del settore.
Il sistema che ha sposato l'alta finanza, il sistema che ha concesso alla finanza di dettare il valore delle cose e di sostituirsi agli attori veri del mondo dell'arte.
Celant ha bruciato, per quanto gli sia stato possibile, soprattutto l'arte italiana degli anni '80.
Le mostre che ha curato sono state forse perfette dal punto di vista professionale ma senza cuore, senza emozioni.
Gaetano Grillo