28 ottobre 2023

Hans Ulrich Obrist: “La mia missione? Dare visibilità agli artisti in attesa del giusto riconoscimento”

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A cosa serve l’arte contemporanea? E quali cambiamenti può instillare nella società e in chi la abita? Sono solo alcune delle questioni affrontate nel libro "A che cosa serve l’arte", scritto con Gianluigi Ricuperati, per Marsilio. Oggi intervistiamo noi Obrist, l’intervistatore più prolifico degli ultimi trent’anni, dalla cancel culture passando per le sue mitiche maratone fino a Umberto Eco e Instagram

Giorgio Agamben e Hans Ulrich Obrist al Berggruen Institute di Venezia. Fotocredit Luca Zanon

La giornata è assolata quando approdo con il vaporetto sull’isola della Giudecca. Sull’acqua appena increspata da una tenue corrente, si specchia un edificio dal fascino misterioso nel suo inconfondibile stile neogotico partorito non a caso, agli inizi del Novecento, dalla fantasia di un pittore, Mario De Maria, noto anche come Marius Pictor. Alla sommità del palazzo svetta un’elegante finestra bifora realizzata dall’artista a tenera memoria della figlia Silvia. Il piano centrale del palazzo si presenta invece con tre ampie finestre che sembrano scrutarti appena sbarchi. Non sorprende, pertanto, che queste aperture siano dette i “Tre Oci”. La Casa dei Tre Oci, con suoi 1.200 metri quadrati, è oggi la sede dove si concretizzerà il programma europeo del Berggruen Institute Europa, ospitando policymaker e pensatori politici, artisti e architetti, autori e studiosi, scienziati ed esperti di tecnologia locali e internazionali— attraversando culture, discipline e confini politici — per sviluppare e promuovere risposte a lungo termine alle più grandi sfide del XXI secolo. Il 3 giugno scorso è stato pronunciato il discorso di apertura di Giorgio Agamben, seguito da una mini-maratona di dialoghi stimolanti con Hans Ulrich Obrist, Agamben, Carlo Rovelli, Francesca Bria, Lea Ypi, Rana Dasgupta e Marina Garcés. È qui che intercettiamo Obrist che ci concede questa intervista esclusiva.

In che modo, all’interno del tuo lavoro, stai indagando il fenomeno attuale della cancel culture?

«Con Yinka Shonibare, artista nigeriano, stiamo preparando una mostra che riguarderà proprio questo argomento. Lui vive a Londra, ha iniziato una residenza in Nigeria: il suo lavoro è affascinante e incentrato sui monumenti. L’intenzione è di dare una risposta molto diretta, attraverso l’opera di un artista.

Quali sono le modalità curatoriali della Serpentine Gallery di Londra?

«Cerchiamo di lavorare sul lungo termine. Infatti, questa mostra inaugurerà la prossima primavera. Il modello della Serpentine è quello della Kunsthalle: ci occupiamo di arte contemporanea, ma senza avere una collezione permanente. Pur senza occuparci prettamente di retrospettive, vogliamo contribuire alla storicizzazione dell’arte contemporanea. Per questo produciamo mostre di artisti che sono attivi da lungo tempo, ma che non hanno ancora ottenuto il riconoscimento che meritano. Penso che sia molto importante per posizionare il loro lavoro in prospettiva.

Serpentine Pavilion 2023 designed by Lina Ghotmeh © Lina Ghotmeh — Architecture. Photo Iwan Baan, Courtesy Serpentine

Ci fai un altro esempio?

«Barbara Chase-Riboud, straordinaria artista afro-americana di base a Parigi, una delle protagoniste della scultura della sua generazione. Oltre all’arte, scrive poesie fin da quando era giovane, Toni Morrison l’ha incoraggiata a farlo. Ha ottant’anni, eppure non ha mai avuto una retrospettiva in Europa. Inoltre, ha trascorso molto tempo qui in Italia dove ha prodotto tante opere. Parte della nostra missione è dare visibilità a importanti artisti in attesa del giusto riconoscimento».

Raccontaci della necessità alla radice delle tue maratone. Sete di conoscenza o passione per questa prova di temperamento che diventa assimilabile a una performance?

«La vera premessa delle maratone è quella di far incontrare professionisti di settori diversi. Artisti visivi, architetti, scienziati… è anche il motivo per cui ci troviamo oggi qui al Berggruen Institute di Venezia. Questa deve diventare una caratteristica preminente del XXI secolo, una modalità chiave per incrociare i diversi settori della conoscenza».

 

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La maratona di cui ti sei sentito più soddisfatto?

«Ci sono stati incontri interessantissimi grazie alle maratone, tuttavia la domanda è interessante, “Qual è stata la più soddisfacente?”. Ricordo quella che ho fatto a Stoccarda nel 2005, la mia prima esperienza di ventiquattro ore. E poi c’è stato l’incontro con Rem Koolhaas nel Padiglione da lui costruito alla Serpentine. Ogni anno invitiamo un architetto che non ha mai realizzato nulla nel Regno Unito a costruire una struttura. Gli ultimi sono stati architetti emergenti come Sumayya Vally, il vincitore del Pritzker Architecture Prize Diébédo Francis Kéré, Lina Ghotmeh… Insomma, le maratone rappresentano anche una sorta di connubio tra arti e architettura. È una situazione magica: il Padiglione è en-plein-air e non ha porte, siamo all’aperto».

Impossibile scegliere…

«Queste sono le mie memorie. Non ne ho una che preferisco perché tutte le maratone sono nuovi incontri, nuovi ponti da costruire».

Hai mai pensato di fare una maratona nel metaverso?

«Sicuramente sì, perché penso sia interessante scoprire come viaggiare tramite la tecnologia. È importante essere consapevoli della necessità di spostarci e inquinare di meno, cercando quindi soluzioni alternative. La tecnologia può metterci in dialogo e mettere in sincronia città diverse. Abbiamo in programma una maratona che si svolgerà il prossimo aprile, in occasione dell’Earth Day. Coinvolgerà istituzioni provenienti da Europa, Stati Uniti, America Latina, Asia, Africa… Raggiungerà tutti i continenti e numerose città senza bisogno di spostarsi. Sarà più sostenibile dal punto di vista ambientale e diventerà una specie di progetto planetario. Assomiglia un po’ a ciò che Nam June Paik volle fare con le sue “performance satellitari”, però applicato al sistema della conferenza».

 

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Quando è stato il tuo primo incontro con i social? Il tuo profilo Instagram contiene migliaia di bigliettini con scritte, disegni, schizzi…

«È una domanda interessante, perché ho iniziato a utilizzare Instagram nel 2012 non sapendo tuttavia cosa farne. E poi ho incontrato Umberto Eco a Milano, mi ha detto che bisognava fare qualcosa per la scrittura a mano poiché era molto preoccupato che potesse sparire. Mi ha affidato una missione in questo ambito, quindi mi sono detto: “cosa posso fare per salvaguardare la scrittura a mano?”. Non avevo le idee ben chiare e non mi ritenevo la persona giusta per avviare una scuola di calligrafia».

L’intervista a Hans Ulrich Obrist prosegue nel numero 121 di exibart onpaper. Scarica la tua copia qui 

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