Categorie: Personaggi

I figli di Trento e Manduria: Fabrizio Bellomo ci parla della sua performance

di - 14 Settembre 2020

L’immagine del ponte è da sempre metafora di passaggio, di unione, di cambiamento. Indica l’attraversamento da un luogo a un altro, da un tempo a un altro, da una condizione a un’altra. Lo sapevano gli espressionisti tedeschi all’inizio del Novecento, quando al loro gruppo d’avanguardia scelsero di dare il nome Die Brücke; lo sapevano Christo e Jeanne Claude quando nel 1985 decisero di impacchettare le Pont Neuf di Parigi, il più antico della città, facendo “loro” il ponte degli impressionisti, in un’operazione concettuale effimera e potentissima; lo sa oggi Fabrizio Bellomo (Bari, 1982), artista pugliese attivo tra Bari e Milano, che ha scelto il ponte per raccontare una storia di tolleranza e concordia, unendo passato e presente. Invitato dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione a collaborare al progetto C’è tempo per le nespole. Nuove narrazioni dalla Grande Guerra, Fabrizio Bellomo ha realizzato una performance nel comune di Manduria, cittadina del basso tarantino in cui, il 17 giugno 1916, sono nati due bambini, uno da una coppia di manduriani, l’altro da due profughi trentini rifugiati in Puglia.

La particolarità della vicenda è che i genitori si sono dichiarati vicendevole solidarietà, da italiani e da uomini, chiamando i loro figli rispettivamente Trento Dinoi e Mandurino Waiss. Suggestionato dalla loro storia, l’artista ha scelto di raccontarla attuando una performance. Sotto gli occhi incuriositi del pubblico, il 15 agosto, su tre diversi ponti di Manduria, Fabrizio Bellomo ha retto una targa stradale simulando l’intitolazione di quei luoghi ai due bambini al fine di perpetuarne la memoria quali simboli di concordia, tanto più validi se rapportati ad un contesto generale di odio e risentimento com’era quello della guerra mondiale. Abbiamo incontrato l’artista per porgergli alcune domande.

L’intervista a Fabrizio Bellomo

Il progetto s’inserisce nelle celebrazioni ministeriali per il centenario della Grande Guerra. Una volta ricevuto l’invito dell’ICCD, quali sono stati i primi passi e come sei arrivato alla storia di Mandurino e Trento?

«Il primo incontro con l’ICCD, con gli altri artisti invitati (Moira Ricci, Alessandro Imbriaco, Onorato & Krebs, Stefano Graziani, Claudio Gobbi e Riccardo Cecchetti) e con il gruppo curatoriale (Francesca Fabiani, Francesca Lazzarini, Chiara Capodici, Alessandro Coco e Peter Lang) è avvenuto a Borca di Cadore, proprio per essere vicini ai territori protagonisti della Grande Guerra. Durante le prime giornate di dialogo con il gruppo continuavo a riflettere sul coinvolgimento pugliese (così come su quello africano) nella prima guerra mondiale. Ho iniziato le mie ricerche e mi sono subito incuriosito alla presenza di profughi trentini nelle Murge pugliesi. Approfondendo l’argomento ho ritrovato gli articoli dello studioso Francesco Altamura, che per la Fondazione Gramsci di Puglia ha realizzato un libro su queste tematiche. Leggendo il libro sono venuto a conoscenza della storia di Trento e Mandurino e ho pensato di dedicare a loro il mio intervento».

Il Ponte, Fabrizio Bellomo 2020, documentazione performance, agosto 2020, Manduria, ph. di Ch. Mantuano

Nella tua pratica artistica ti muovi costantemente tra reale e digitale. Video, performance e fotografia sono i tuoi mezzi d’espressione privilegiati. Ma come nasce un tuo progetto e con quali obiettivi?

«Ogni volta i progetti prendono forme diverse, dal cinema alla performance, dalla scrittura all’installazione alla fotografia e in molti casi, come credo anche in questo, si può percepire che sono una summa, un mix di tutte queste pratiche. Nascono spesso dalla ricerca su storie legate al territorio che sono al tempo stesso locali e globali. Osservo e conosco il micro per narrare il macro. Da storie personali diventano di interesse collettivo. Forse l’unico obiettivo che mi pongo quando lavoro a un progetto è quello di calarmi nella realtà, nella vita quotidiana e nelle strade, senza per questo rinunciare al lato visionario della vicenda».

Hai chiesto al Comune di Manduria di intitolare un ponte a Mandurino Waiss e Trento Dinoi. Le targhe stradali sono un efficace strumento per rendere noti personaggi e vicende e perpetuarne la memoria. Al di là della specificità storica, pensi che la vicenda dei due bambini possa essere rapportata al presente?

«Certamente! È una storia di profughi, è una storia universale. Come oggi ci sono i profughi siriani in passato vi sono stati dei profughi trentini accolti in Puglia, molto prima che iniziasse la brutta retorica del “non si affitta ai terroni” poi divenuta “non si affitta agli albanesi” e via via fino ai nostri giorni. Ad alcuni l’episodio dei profughi trentini accolti in Puglia può sembrare un paradosso, solo perché letto con il filtro della contemporaneità. È semplicemente la nostra Storia di esseri umani. Un tempo per i trentini, le Murge pugliesi erano un territorio troppo estremo. Dalle ricerche si evince ad esempio una certa difficoltà ad abituarsi alla cucina locale. I trentini all’epoca mal digerivano la cucina e le verdure del Sud. Ma nonostante questo, dai testi si percepisce anche come gli abitanti di Manduria riuscirono comunque a esprimere e a trasmettere del calore umano a quei profughi».

Nato a Terlizzi nel 1980, è giornalista, critico d’arte e curatore indipendente. Dopo la laurea in Conservazione dei Beni Culturali presso l'Università degli Studi di Lecce, si perfeziona sull'Arte del Novecento all'Università degli Studi di Bari. Già cultore della materia in Museologia presso l’Università degli Studi della Calabria e docente a contratto presso l’Accademia di Belle Arti di Vibo Valentia, ha condotto studi specialistici e curato mostre per Soprintendenze, istituzioni e musei.  

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