Categorie: Personaggi

I mestieri dell’arte. L’intervista/Primo Marella | Si fa presto a dire Oriente |

di - 13 Giugno 2013

Partiamo dall’inizio, quando e perché ha deciso di investire nella ricerca delle cosiddette aree “periferiche”  del sistema dell’arte occidentale?
«Guardando alle nuove capitali occidentali dell’arte, a partire da New York, abbiamo osservato l’evolversi degli scenari internazionali e ci siamo accorti subito che cose molto più interessanti stavano succedendo in Cina. Era il 1997-1998, e abbiamo iniziato a presentare artisti cinesi a Milano, dopo un periodo intenso di esplorazioni e accordi con diversi artisti. Da allora abbiamo perlustrato la Cina in lungo e in largo, portando in Italia molti degli artisti che oggi hanno raggiunto una fama internazionale. Con lo stesso spirito esplorativo, di studio e di ricerca, abbiamo cominciato a seguire alcuni artisti indiani, coreani e anche brasiliani. Nel 2007 ci siamo rivolti all’Indonesia, le Filippine e l’Africa. Quest’anno stiamo monitorando l’arte contemporanea dei Paesi emergenti, quali Cambogia, Vietnam e Myanmar».
Quali sono le difficoltà logistiche-organizzative per esporre un artista extraeuropeo e quali sono le vie da percorrere per ottenere visti e permessi di esportazione di opere d’arte dall’estero in Europa?
«Portare un artista in Italia dall’Asia o dall’Africa non è facile, richiede una organizzazione efficiente. Anzitutto ci sono problemi di lingua, molti artisti non parlano inglese e per comunicare è necessario avere personale qualificato. Spesso, specie in passato, ora sempre meno, non usavano Internet o non potevano accedervi, per cui i tempi si dilatavano molto. Va considerato poi che molti artisti asiatici non “stravedono” per esporre in Occidente, non ne vedono la ragione e sono molto diffidenti. Oltre a ciò, su molti territori è necessario avere dei permessi governativi per poter inviare all’estero opere d’arte. Questi permessi sono legati alla circolazione trasparente delle opere, agli oneri doganali, alle varie censure. In questo modo i governi locali controllano l’artista e la produzione che invia all’estero. Queste attività sono più forti, attualmente, in Cina dove bisogna ottenere un permesso, il Pi-wen, presso l’ufficio di Pechino, sia quando vuoi esportare le opere e sia – assurdo ma è così – quando le devi far rientrare in Cina. In Myanmar è difficilissimo fare qualsiasi operazione, tra cui trasferire dei pagamenti; così nelle Filippine, per via di normative import-export molto severe. Un altro esempio è l’Indonesia dove, per poter movimentare le opere, relazionarci con gli artisti, fare le casse, chiedere i permessi, fare le operazioni doganali e logistiche, abbiamo dovuto organizzare un nostro ufficio».

Ci descriva come è organizzato il lavoro
«Su alcuni Paesi abbiamo dei nostri corrispondenti che si appoggiano ad uffici territoriali e che si occupano delle varie fasi: dall’identificazione dei critici e curatori, all’analisi del lavoro dell’artista, agli accordi legali con artisti e curatori locali, alla scelta dei progetti e delle opere da realizzare, alla preparazione dei libri e a tutto il resto di cui abbiamo parlato, per importare le opere in Italia. A costoro si aggiungono operatori free-lance territoriali e circa una trentina tra critici e curatori, “antenne” che ci aiutano ad esaminare gli artisti e il loro lavoro e che vengono attivati progetto per progetto. Per evitare i rischi legati alla programmazione e alla possibilità che la mostra non arrivi, lavoriamo a più progetti contestualmente».
Un’organizzazione piuttosto complessa, quindi
«Sì. questi aspetti sono profondamente sottovalutati. Molti pensano che basti una mail per fare tutto, che gli artisti siano in ginocchio a supplicare di lavorare, o che vengano pagati due lire. Ma non è così, basta vedere quante gallerie, in Occidente, negli ultimi quindici anni si sono cimentate nel nostro lavoro, e quante siano tuttora operative».
A Milano, città con il tasso più alto di gallerie, associazioni, artisti e critici come viene recepita dal pubblico e dai collezionisti la sua proposta così specialistica e non facile da vendere, a parte gli artisti cinesi che dagli anni ‘90  furoreggiano nei mercati e  nei musei occidentali?
«Ancora molto. Molti, specialmente quelli non ben informati e che non sono mai venuti in galleria, etichettano le  nostre  mostre con il “bollino” di arte etnica, merci colorite e di artigianato delle periferie del mondo artistico, guardando ancora l’Asia o l’Africa dall’alto verso il basso. La galleria vive ancora per via di un’attenzione proveniente dall’esterno, in particolare da parte di prestigiose collezioni internazionali o musei, specie asiatici. Sono ancora pochi (ma illuminati, ritengo) i collezionisti milanesi che seguono la nostra ricerca».

Nel 1989 la mostra “Les Magicienes de la Terre” ospitata al Centre Pompidou a Parigi, a cura di Jan –Hubert Martin ha introdotto l’arte africana contemporanea in Europa. Cos’è cambiato da allora? L’africanismo riscuote ancora lo stesso interesse oppure no ?
«La mostra che cita è stata tra i grandi esempi di introduzione dell’arte africana nel panorama colto dell’arte contemporanea, seguita dall’edizione del 2000 della Biennale di Lione, sempre curata da Jan-Hubert Martin, e Documenta 11 a Kassel del 2002, curata da Okwi Enwezor, e poi “Africa Remix” curate da Simon Njami, tenutesi in vari musei. L’africanismo riscuote ancora enorme interesse e sempre più istituzioni, musei e collezioni si stanno interessando all’Africa.
Naturalmente l’Africa è vasta, si presta a varie interpretazioni e si può dire e fare di tutto. Noi stiamo cercando di fare un’analisi, confrontandoci con alcuni dei più validi curatori di arte africana, per fornire la nostra visione e presentare quegli artisti che riteniamo più adeguati, in termini di ricerca, ai nostri tempi, e alla sfida globale presente nell’arte contemporanea».
Per organizzare una  mostra di un artista “esotico”, ottiene sponsorizzazioni pubbliche o private da parte dei Paesi interessati o altre agevolazioni per facilitare la mediazione di scambio cultuale ed artistico?
«Non ho mai ricevuto nessuna sponsorizzazione, né particolari agevolazioni dai Paesi interessati.
Essendo una galleria privata, il nostro lavoro viene valutato come mercantile, e non viene mai ravvisato l’approccio che adottiamo, di approfondimento critico e culturale, volto a far conoscere la loro arte in Occidente, a nostre spese».                                                                                                                                                                                      
Quali sono le caratteristiche che deve avere un artista extraeuropeo per piacere in Occidentale?
«Non è detto, ne è necessario, che sia in sintonia con l’arte occidentale ma, rispetto al suo Paese, deve rappresentare lo stesso slancio innovativo che dimostra un’importante artista occidentale qui da noi. Poi, sotto il profilo estetico o critico, possono rimanere enormi distanze tra Est e Ovest. L’artista va giudicato per la capacità di scuotersi dal passato e di guardare in avanti, pur operando spesso in Paesi molto difficili, senza le libertà e le opportunità offerte dall’Occidente. In sostanza, deve esprimere uno sforzo realmente ammirevole. Valuto molto anche il tentativo di rendere “universale” l’arte che fanno. Apprezzo particolarmente quando quest’arte perde i connotati etnici, o naives, dell’origine culturale dell’artista, specie per quanto riguarda il South East Asia e l’Africa che partono molto svantaggiati rispetto al resto del mondo, per ragioni politiche e per le persistenti sofferenze umane e crisi economiche. Mi piace molto l’idea di poter fare qualcosa per loro, e di potergli offrire un’opportunità».

La sua  galleria ha da poco ospitato la prima importante personale di Abdoulaye Konatè, artista africano che ha esposto nella XIII edizione di Documenta a Kassel nel 2007, ancora poco conosciuto in Italia, impegnato da anni nella denuncia contro i fanatismi religiosi e i soprusi di potere da parte degli stati imperialisti, che lotta per l’affermazione di una cultura interreligiosa. Come è stato recepito il suo lavoro dal pubblico e dalla critica italiana?
«Molto bene da alcuni critici italiani aperti, da alcune istituzioni europee e da alcune importanti collezioni italiane e internazionali. Per il resto, direi poco altro».
Quanto costa mediamente l’organizzazione di una mostra di un artista extraeuropeo che vive nel Paese d’origine in difficili condizioni politiche ed economiche?
«Le mostre hanno dei costi diversi a seconda della dimensione del progetto. Generalmente una mostra personale costa meno di un progetto come “Deep S.E.A.”, che abbiamo esposto tra io novembre 2012 e il febbraio di quest’anno, a cui hanno lavorato otto critici e curatori asiatici e tutto lo staff della galleria per dei mesi. Con i trasporti, molto ingenti considerate le opere che gli artisti hanno preparato e i Paesi di provenienza (Vietnam, Laos, Cambogia, Myanmar, Filippine, Indonesia, Singapore ) e il libro che è stato realizzato (distribuito da Damiani), la mostra è costata più di 200mila euro, esclusi i costi delle singole opere e i costi di galleria per due mesi di esposizione. Il progetto è stato però accolto molto bene dalla critica e dalla stampa internazionale e sono arrivati anche visitatori da tutto il mondo. Molti degli artisti presenti sono stati invitati in importanti rassegne, biennali e mostre museali per quest’anno e prossimamente».

Val sempre la pena, malgrado la crisi, gestire una galleria a Milano e perché?
«Credo che Milano, e l’Italia in generale, si meriti comunque dei galleristi che vi operino in modo serio e qualificato, aperti al confronto reciproco. Osservando quello che sta accadendo a livello nazionale ed internazionale, tutto lascia intuire che non sia così. Si ritrovano sempre gli stessi nomi nelle fiere principali e tutto ciò va a discapito non solo delle gallerie che non fanno parte di questa cerchia ristretta, ma anche dell’immagine stessa che si dà dell’Italia all’estero. Sembra quasi che esistano solamente quei pochi nomi, gli stessi che si ritrovano nelle kermesse internazionali . In questo modo viene danneggiato tutto il sistema dell’arte italiano, perché gli acquisti di arte provenienti dall’estero confluiscono solamente verso poche gallerie. Possibile che le altre gallerie non abbiano validi artisti o non organizzino buone mostre? Possibile che il rapporto tra queste gallerie e le altre sia tale per cui queste partecipano, ad esempio, in 5 anni alle 50 fiere importanti, e le altre non partecipano neanche ad una? Quest’anno, dopo 15 anni di lavoro sull’Asia, più’ di 50 libri realizzati, collaborazioni costanti con musei, istituzioni, case d’asta e collezioni asiatiche, e dopo aver insegnato a molte gallerie locali come si fa questo lavoro (alcune mie collaboratrici dirigono adesso importanti realtà in Asia), sono stato escluso dalla fiera di Hong Kong, che facevo dalla prima edizione di 7 anni fa. Nel comitato della fiera, sedeva per la prima volta, un gallerista italiano per il quale il mio lavoro non vale evidentemente nulla. Oppure, gli dava fastidio, a titolo personale, la mia presenza. In politica ci si sta avvicinando, anche se lentamente, alla Terza Repubblica. In campo artistico siamo in mano al potere incontrastato di pochi».
A quale progetto sta lavorando e su quali artisti punta?
«Stiamo lavorando a più progetti, in particolare sul Sud Est Asiatico  e l’Africa. Ma vogliamo  sostenere e presentare prossimamente, anche alcuni giovani e meritevoli artisti Italiani in cui confidiamo molto».

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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