-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Idee per il futuro è la nuova rubrica di exibart, per dare la parola agli artisti e immaginare, insieme, nuove idee per il futuro, oltre che per provare a capire come realizzarlo, dopo l’emergenza Covid-19: l’appuntamento di oggi è con Adelaide Cioni.
La biografia di Adelaide Cioni
Adelaide Cioni (Bologna, 1976) ha studiato disegno all’UCLA, Los Angeles, e si è diplomata in scultura all’Accademia di Belle Arti di Roma (2015). Laureata in storia contemporanea, per dieci anni ha tradotto letteratura americana (John Cheever, David Foster Wallace, Richard Ford). Nel 2012, terminata la traduzione dei diari di John Cheever, ha deciso di smettere di tradurre e dedicarsi alla pratica artistica. Nel 2014 è stata residente alla Citè internationale des arts di Parigi e ha vinto il Premio Celeste. Nel 2015 è stata residente a Villa Sträuli, Winterthur. Nel 2016 si è trasferita in Umbria dove ha aperto insieme a Fabio Giorgi Alberti uno spazio/studio che si chiama “Franca”. Ha esposto in spazi indipendenti e in luoghi istituzionali, in Italia e all’estero.
Le idee per il futuro
Tre cose che chiederesti per far fronte al futuro, come professionista dell’arte (Denaro? Possibilità di esporre? Studio gratuito? Minori imposte sulla Partita Iva? Abbassamento dell’IVA per chi decide di investire in arte? Creazione di un sindacato?…)
«Già ora la partita Iva con il forfettario è molto bassa, non credo si possa fare di meglio. Sicuramente andrebbe incentivato l’acquisto di arte contemporanea concedendo degli sgravi fiscali. I comuni e le regioni hanno tanti locali non utilizzati che potrebbero concedere come studio agli artisti tramite graduatoria, gratuitamente o a un prezzo simbolico. Ma soprattutto bisognerebbe istituire qualcosa di analogo alla Maison des artistes francese, un ente che svolga una serie di funzioni fondamentali: dall’assistenza legale/contrattuale/fiscale all’informazione, documentazione e mappatura, ma anche molto semplicemente che dia un’identità riconoscibile a livello sociale e ufficiale, in pratica che ti metta un timbro, facile, diretto, che dica: questa persona è un’artista punto e basta, per cui anche in una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo ora sia più facile per noi chiedere aiuti specifici allo stato e per lo stato identificarci come categoria da proteggere.
Vorrei poter entrare gratis nei musei. E vorrei che fosse sostenuta l’acquisizione di opere di artisti emergenti e mid-career italiani da parte dei musei. Vorrei che le donne fossero più rappresentate, non in quanto donne, ma in quanto artiste. Siamo ancora così indietro in questo. Pochi giorni fa su un giornale hanno fatto parlare gli artisti e su 32 solo 4 erano donne. È una sproporzione che non rispecchia la realtà ed è indice di un problema grave. Se io vado alla Tate nel museo ci sono più o meno lo stesso numero di opere di artisti uomini e donne. Al Madre cinque anni fa (spero e credo che ora sia cambiato qualcosa) in tutto il museo c’erano esposte solo due o tre artiste».
Ci puoi dire un motivo per cui, secondo te, ancora oggi in Italia si fatica a riconoscere i diritti degli artisti come categoria professionale?
«Per riconoscere i diritti degli artisti bisognerebbe riconoscere innanzitutto gli artisti. Non so, forse è perché abbiamo un patrimonio così vasto e importante, per cui se dici “artista” la gente pensa a Michelangelo o a Raffaello. Il concetto di artista contemporaneo, vivente, è una cosa molto sfuggente, la gente si immagina degli unicorni, creature estranee alla realtà e rarissime. Mi è capitato pochi anni fa di dover rifare la carta d’identità. Abitavo a Roma, per cui sono andata all’anagrafe di via Petroselli e quando l’impiegata mi ha chiesto cosa mettere alla voce professione, io le ho detto “artista”. Lei si è bloccata, ha alzato un sopracciglio e guardandomi da sopra gli occhiali a mezzaluna mi ha detto: “Questo me lo devo dimostrare”. La cosa mi ha lasciata un po’ perplessa, la signora mi stava sfidando, davvero. Per caso avevo con me un catalogo dove c’erano foto di miei lavori e gliel’ho mostrato. Lei ha letto le didascalie poi ha detto, “E che ne so io, magari è un’omonima, magari è sua cugina”. Ora, a prescindere dal fatto che Adelaide è un nome abbastanza raro, non ho saputo più che dire. L’impiegata non poteva credere che io avessi l’impudenza di dichiararmi, così, davanti a pubblici ufficiali, “artista”. Una bella faccia tosta in effetti. Perché l’artista è un valore massimo, è un vate, ha le ali, vola. Alla fine non me l’ha voluto scrivere. Professione: niente, nullo, vuoto».
Parliamo dei danni, oltre a quelli morali. A quali progetti stavi lavorando prima di questo isolamento, ma soprattutto prevedi che si concretizzeranno o dovranno essere abbandonati?
«Sono stata abbastanza fortunata, l’ultima cosa che ho fatto è finita due giorni prima del lockdown e i progetti di mostre erano comunque per l’autunno, ho perso qualche fiera, alcune si faranno più avanti, speriamo».