Categorie: Personaggi

Idee per il futuro #17. Intervista a Sergio Lombardo

di - 28 Maggio 2020

Idee per il futuro è la nuova rubrica di exibart, per dare la parola agli artisti e immaginare, insieme, nuove idee per il futuro, oltre che per provare a capire come realizzarlo, dopo l’emergenza Covid-19: l’appuntamento di oggi è con Sergio Lombardo, Maestro dell’arte contemporanea italiana.

La biografia di Sergio Lombardo

Psicologo e accademico emerito, nato a Roma nel 1939, Sergio Lombardo è tra i principali protagonisti italiani che hanno rinnovato il linguaggio artistico internazionale a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Ha aderito alla Scuola di Piazza del Popolo – movimento al quale parteciparono artisti come Jannis Kounellis, Mimmo Rotella, Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, Renato Mambor, Cesare Tacchi, Mario Ceroli e Pino Pascali – ed è uno dei maggiori esponenti storici dell’avanguardia internazionale e della Pop Art.

È fondatore della Teoria Eventualista e del Centro Studi Jartrakor, da cui è nato un movimento artistico e teorico basato su metodi sperimentali, il cui organo di divulgazione scientifica è la Rivista di Psicologia dell’Arte da lui fondata nel 1979.

Il suo lavoro artistico è caratterizzato da programmatica discontinuità e può essere raggruppato in periodi o cicli ben distinti: Monocromi (1958 – 1961); Gesti Tipici (1961 – 1963); Uomini Politici Colorati (1963 – 1964); Supercomponibili (1965 – 1968); Sfera con sirena (1968 – 1969); Progetti di Morte per Avvelenamento (1970 – 1971); Concerti di Arte Aleatoria (1971 – 1975); Specchio Tachistoscopico con Stimolazione a Sognare (1979); Mappe Minimali (1996 – 2002); Pittura Stocastica, Tiling, Quilting, Hazard (dal 1980 a oggi);

Nel 1969 ha rappresentato l’Italia alla VI Biennale di Parigi e nel 1970 ha ottenuto una sala personale al Padiglione Centrale Italiano della Biennale di Venezia. Ha esposto presso il Museo Nazionale d’Arte Moderna di Tokyo (1967), il Jewish Museum di New York (1968), il PS1 di New York (2000), il Walker Art Center di Minneapolis (2015), il Dallas Museum of Art (2015), il Philadelphia Museum of Art (2016), la Tate Gallery di Londra (2016).
Le sue opere sono conservate in importanti istituzioni internazionali: Philadelphia Museum of Art, GAM di Torino, MLAC dell’Università La Sapienza di Roma, GNAM di Roma, MACTE di Termoli, Getty Museum di Los Angeles.

Fra le sue pubblicazioni monografiche: L’avanguardia difficile, Lithos, Roma 2004 – Sergio Lombardo (a cura di M. Mirolla) Università La Sapienza, Roma 1995 – Sergio Lombardo (a cura di A. Tugnoli) Christian Maretti Editore 2009 –  “12×12” Mappe di Heawood, Vallecchi, Firenze 2004 – Stochastic Works 2012-2017 (a cura di S. Zacchini) Mudima, Milano 2018 – Monocromi/Monochromes 1958-1961 (a cura di A. Mecugni) Silvana Editoriale, Milano 2018 – Quilting (a cura di S. Zacchini) Magonza, Arezzo 2019 – Sergio Lombardo: sperimentazioni stocastiche 1995-2020 (a cura di S. Zacchini) MLAC Università La Sapienza, Roma, Lithos 2020.

Ha pubblicato su diverse riviste scientifiche come: Kunst und Therapie (Germany) – Iskusstvo i Emozii (Russia) – Empirical Studies of the Arts (USA) – Problems of Informational Culture (Russia) – Psychology and the Arts (USA) – Lomonosov Moscow State University (Russia) – Nodes (Italia) – Rivista di Psicologia dell’Arte (Italia).

Le idee per l’arte

Quali sono le tre cose principali che vorrebbe vedere attuate per far fronte al futuro, come professionista dell’arte?

«Gli artisti, come gli inventori, i profeti e i santi, non sono dei veri professionisti. Nel mondo dei lavoratori, intesi come produttori di beni tassabili, gli artisti non esistono. Al massimo esistono i grafici, o gli artigiani, con regolare partita IVA. Ma che c’entra l’arte con la grafica e con l’artigianato? Nulla. Nella nostra struttura sociale e politica non esiste una definizione di arte e quindi di artista. Ne esiste solo una definizione fiscale. Infatti qualcosa diventa arte soltanto al momento e a causa della sua vendita.

E allora, quando si parla di arte, si fanno biennali e mostre, si aprono musei, si dice che in Italia c’è più arte che in qualsiasi altra nazione del mondo, quando gli intellettuali e i politici dicono “bisogna sostenere l’arte” o peggio “bisogna sostenere l’arte italiana” bisognerebbe chiedere loro: di quale arte state parlando? Come definite il contenuto della parola arte? Potete fare i nomi degli artisti che includete o escludete dalla vostra definizione? Volete alludere democraticamente ai milioni di “artisti” e “creativi” che hanno fatto mostre, o sono comparsi su riviste d’arte? Includete anche i milioni di operatori in nero, ambulanti, madonnari, pupazzari, virali del web? Da questo mare magnum certi curatori creativi, come novelli Duchamp, scelgono gli artisti da esporre nei musei. Questi curatori, arbitri di un’arte senza definizione, poetici creatori di eventi, sono anche loro artisti?

Quando il Futurismo ha rivoluzionato la definizione di arte a livello planetario, escludendo le teorie “passatiste”, ma includendovi la scienza, la tecnologia, la velocità e l’evento, gli artisti erano solo sei.

Quando gli Stati Uniti, dopo la seconda guerra mondiale, hanno creato un’avanguardia artistica rappresentativa di tutto il mondo democratico chiamandola Pop Art, gli artisti erano solo otto. Il primo gruppo della Scuola di Piazza del Popolo, del quale mi onoro di aver fatto parte, era formato da otto artisti. Gli artisti della Transavanguardia erano cinque, quelli dell’Arte Povera erano pochi di più. La grande arte, che si accompagna ai grandi movimenti politici, è tanto più grande quanto più piccolo è il numero degli artisti che include.

Invece quando la politica è misera e colonizzata, come quella italiana di oggi, l’arte non serve più come ideale, ma come intrattenimento. Il politico non ha più bisogno di idee, ma di voti, perciò organizza insulsi spettacoli di massa. Circenses. Carrozzoni.

Oggi migliaia di curatori si illudono di saper scoprire, lanciare e valorizzare “giovani” artisti sperando che per caso, magicamente, senza una nuova teoria dell’arte e senza maestri, questi (giovani solo anagraficamente) rivoluzionino l’arte mondiale. Politici di opposte fazioni invitano migliaia di giovani a sottoporsi al loro giudizio arbitrario, compilando poi lunghissimi elenchi di artisti di cui nessuno ricorderà mai i nomi.

Per quanto poi riguarda un’ipotetica arte “italiana” del periodo che va dal dopoguerra a oggi, quasi nessun curatore oserebbe quantomeno fare i nomi dei maestri storici e comunque nessun museo italiano ne possiede le opere più rappresentative. Se l’Italia non ha difeso a suo tempo i maestri, come può sperare oggi che emergano dal nulla i giovani talenti? I figli nascono dai genitori, non nascono dal nulla.

Premesso tutto questo, per rispondere alla domanda che mi viene rivolta, per prima cosa suggerirei che venissero chiaramente definite le teorie dell’arte operative oggi, facendo i nomi degli artisti che appartengono a ciascuna di esse e che fra queste diverse teorie nascesse un confronto aperto.

Poi suggerirei che gli artisti storici fossero interpellati dai direttori dei grandi musei per radunare le loro opere in modo coerente e scientificamente valido, in grado di affrontare con successo la competizione sul mercato globale. I musei dovrebbero specializzarsi in una specifica teoria estetica, o corrente di pensiero, in modo da rendersi insostituibili, dotandosi di archivi accessibili a tutti gli studiosi e al pubblico.

Infine, poiché nessuno è mai diventato un grande artista usufruendo degli aiuti statali, sarebbe auspicabile che i curatori di mostre, oggi ridotti a specialisti dell’ascolto dei cambiamenti del vento, dichiarassero a priori le loro teorie estetiche rendendole falsificabili. Ad essi bisognerebbe riconoscere anche un budget per l’acquisto e la vendita delle opere incluse nella loro teoria, in modo che possano difenderle sul mercato e aumentarne il valore. Solo sostenendo un “prodotto” originale, esteticamente valido, si può giocare da protagonisti sul mercato globale».

Sergio Lombardo, Quilting, 2017, Quilt n.5, vinilico su tela

Ci può dire un motivo per cui, secondo lei, in Italia ancora oggi si fatica a riconoscere i diritti degli artisti come categoria professionale?

«Gli artisti non sono una categoria professionale, gli artigiani e i grafici lo sono. Affinché un artigiano, un grafico, un filosofo, o un vagabondo diventi un artista c’è bisogno del riconoscimento storico. Solo dopo il riconoscimento da parte della storia, cioè ex post non ex ante, un qualunque cittadino, retrospettivamente, può essere considerato artista. Torniamo ai numeri. Se gli artigiani mediamente sono parecchi milioni, proporzionalmente gli artisti sono solo tre o quattro, i quali, sebbene possano aver lavorato anche da giovani, quando vengono riconosciuti dalla storia dell’arte ormai sono diventati vecchi, e spesso sono già morti.

Inoltre alcuni artisti possono essere stati anche artigiani, nel senso che hanno fatto per tutta la vita sempre lo stesso prodotto artigianale ben riconoscibile come nel caso di Castellani, ma possono anche essere stati sperimentatori scientifici sviluppando nel tempo una nuova teoria estetica, come nel mio caso. Se tutti quelli che lavorano come Castellani fossero inclusi nella categoria professionale degli artisti, allora anche l’impagliatore di sedie, il calzolaio, il cuoco e il barbiere pretenderebbero di appartenere alla stessa categoria. Se tutti quelli che lavorano come me fossero inclusi nella categoria professionale degli artisti, allora anche i radioamatori, gli sperimentatori del volo umano, gli hacker, gli scalatori, i giocatori d’azzardo dovrebbero essere inclusi nella stessa categoria.

Il tentativo reiterato di fare opere originali, ma incomprensibili, che non sono ancora opere d’arte e probabilmente non lo saranno mai, non si può formalizzare come un lavoro degno di protezione statale, perché solo lo 0,001% di questi tentativi sarà riconosciuto dalla storia come vera arte. Solo gli Stati veramente sovrani e in fase di espansione politica, come sono state nei secoli scorsi le nazioni europee, poi durante la guerra fredda gli USA e l’URSS, e adesso gli USA e forse la Cina, solo loro possono permettersi di sostenere l’arte, la propria arte, quella rappresentativa dei valori che loro vogliono espandere.

Gli USA, nel periodo della Guerra Fredda, hanno usato l’arte come “arma da guerra”, solo così hanno sostenuto politicamente e valorizzato i loro artisti, facendoli nascere già come artisti e non come artigiani. John F. Kennedy arredava lo studio ovale della Casa Bianca con le opere di Robert Rauschenberg, ventenne, già eletto a rappresentare l’arte “americana”. Ma l’Italia non fa parte delle culture in espansione, non ha una teoria estetico-politica, quindi non può sostenere un’arte “italiana”, può solo accettare che alcuni artigiani paghino le tasse solo per il vezzo di chiamarsi e farsi chiamare “artisti”.

L’attività professionale di questi “artisti”, sedicenti, non è riconosciuta per motivi estetici, né storici, ma solo perché è basata sul lucro commerciale. Lo Stato non vuole sapere se l’artigiano è un vero artista o un illuso, basta che dichiari le entrate economiche e paghi le tasse.

Segio Lombardo, Concerto per danzatore 1973, esecuzione di A. Homberg Jartrakor, Roma

Più complesso è il problema della ricerca artistica o scientifica che non è fatta a scopo di lucro. Infatti spesso anche i grandi artisti hanno fatto ricerca a proprie spese senza mai andare in attivo e si sono mantenuti economicamente facendo altri mestieri. Io, ad esempio, ho fatto il professore universitario.

Se mi chiedete perché non ho fatto l’artigiano, la risposta è complessa. In Italia non esiste una storia dell’arte italiana dal dopoguerra in poi, non ci sono musei che ne valorizzino seriamente le opere perché non c’è mai stata una politica di difesa dell’identità culturale italiana. Anzi chi la avesse proposta sarebbe stato tacciato di nazionalismo, se non di razzismo, o di fascismo. L’Italia da debole unione di province in conflitto, con patologiche manie di grandezza, in mezzo a una guerra civile e ad una sconfitta militare, nel 1943 è diventata magicamente internazionale, multietnica, multireligiosa, multilinguistica, mantenendo però tutti i limiti politici, linguistici, economici, campanilistici, localistici di prima.

Dopo il grottesco e fallito tentativo fascista di creare “l’uomo nuovo”, lo Stato italiano postbellico ha sempre osteggiato qualsiasi pretesa avanguardistica, di autonomia culturale, di ricerca estetica innovativa, di evoluzione scientifica e si è sempre accodato umilmente ai dictat del mercato internazionale, quasi vergognandosi di esistere. I nostri grandi musei, i nostri monumenti storici, sono stati “stuprati” dall’esibizionismo di artisti “internazionali” ricchissimi, invitati nei nostri luoghi più sacri come superuomini.

In questo clima di sottomissione e di regressione al passatismo, non c’era spazio per la mia ricerca di un’arte sperimentale avanzata le cui radici potevano risalire al primo futurismo, radici condivise da tutta l’avanguardia internazionale a trazione americana. Ma lo Stato italiano, quasi per scusarsi del fascismo – excusatio non petita – ha rinnegato e stroncato dall’interno ogni possibile anelito avanguardistico e di ricerca avanzata autoctona. Identificandosi invece con l’anacronismo e con il passatismo.

In conclusione, evitando anacronistiche rivendicazioni di tipo sindacale o corporativistico, lo Stato italiano dovrebbe sostenere la ricerca sperimentale e scientifica nel campo dell’arte, attraverso la costruzione di un mercato interno finora inesistente, con lo scopo di favorire la connessione dei “giovani talenti” con la generazione di quei maestri che hanno saputo costruire e mostrare a tutto il mondo, seppure osteggiati in patria, un’identità italiana autenticamente democratica e senza complessi d’inferiorità».

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