Categorie: Personaggi

Il colore della pelle è politico

di - 6 Aprile 2017
Il corpo di Carlos Martiel è un corpo fisico e politico, ovvero è attraverso la sua cruda esposizione che l’artista cubano mette in scena le rappresentazioni del nostro presente, esplorandone la natura dell’esistenza, le barriere sociali e tradizioni culturali. Attraverso una serie di situazioni rischiose, di sofferenza o privazione, Martiel (nato nel 1989) ci offre un ritratto lucido di noi, dell’altro, e del nostro modo di guardare alla “diversità” e agli stereotipi. Lo abbiamo intervistato, attraversando opere, Paesi, e questioni di pelle.
Vivi da tempo a New York, qual è la storia che ti ha portato a lasciare Cuba per gli Stati Uniti e come mai proprio nella Grande Mela?
«Cinque anni fa sono andato via da Cuba, spinto da un profondo bisogno di libertà e dal desiderio di conoscere altre realtà. È stata davvero una “fuga” dalla connotazione molto romantica. La prima destinazione fu Quito (Ecuador), ma dopo tre mesi che vivevo lì continuavo a sentire forte dentro di me il bisogno di continuare a esplorare. Dopo averci pensato per diversi giorni, sono andato via illegalmente eludendo i controlli alla frontiera insieme a un amico, con cui ho attraversato diversi Paesi come Perù, Bolivia, fino ad arrivare a Buenos Aires. Alla fine del 2013 ricevetti l’invito al Festival “Viva Art Action” a Montreal; mentre ero in Canada decisi di entrare negli Stati Uniti dalla frontiera delle Cascate del Niagara. Negli USA ho vissuto quasi un anno in varie città: Jacksonville, Chicago, San Francisco, Oakland, Miami. Proprio a Miami ho deciso: dopo aver parlato con il mio amico Glexis Novoa, la scelta è ricaduta su New York. Venire qui è stato un salto nel buio, un rischio: ricordo che avevo a disposizione solo mille dollari e il divano di uno sconosciuto per dormire una notte, ma devo ammetterlo, avevo anche molta voglia di addentrarmi nell’ignoto».

Gli anni dal 2009 al 2017 sono stati caratterizzati dalla presenza di Obama, il primo presidente afroamericano degli USA. Con l’elezione di Trump assistiamo ad un radicale cambiamento politico, credi che possano esserci realmente dei passi indietro per i diritti sociali in America?  Cambierà qualcosa per te che ti sei sempre schierato contro l’intolleranza, l’emarginazione, la violenza inflitta alle popolazioni povere e costrette all’emigrazione?
«Dal primo giorno in cui Donald Trump ha varcato la soglia della Casa Bianca in veste di Presidente, i Diritti Civili e Sociali stanno facendo ben più che un passo all’indietro. Sono state per esempio eliminate automaticamente la sezione in spagnolo e quella LGBT dalla pagina web della Casa Bianca. Il fatto che una persona senza esperienza politica e, inoltre, estremamente razzista, xenofoba e misogina sia l’attuale presidente degli Stati Uniti, sottolinea che stiamo attraversando una crisi di valori terribilmente profonda. Se la xenofobia e il razzismo tornano a essere di nuovo l’argomento popolare nel discorso politico, allora siamo tutti fottuti! Non ho mai considerato gli Stati Uniti come un paradiso, né ritengo che sia il Paese della democrazia esemplare: con l’amministrazione Obama sono state deportate più di 2,8 milioni di persone, ma la situazione che stiamo vivendo con Trump è inaccettabile. Attualmente il mio lavoro è molto più legato ai conflitti migratori, alle tematiche razziali, alla strategie che storicamente ha adottato il potere per rendere invisibili determinati gruppi umani. Dopo la vittoria di Trump alle elezioni, ho fatto maggiore chiarezza su molte realtà di questo Paese, ed è stato un forte shock. Con tutte le misure che sta attuando, in me c’è un certo timore o incertezza, una delusione totale nei confronti della politica».

Spesso le tue azioni s’innestano nel contesto politico-sociale nelle quali vengono svolte e lo discutono con l’introduzione reale del tuo corpo “martoriato”. Di recente la performance realizzata presso CIFO Art space Miami ti vede in ginocchio mentre sostituisci la quarta gamba di un tavolo dove sono serviti alcuni piatti tipici haitiani, inglobando anche gesti e testimonianze degli immigrati di Haiti, senza documenti, che vivono a Miami. Quanto c’è di autobiografico nel tuo lavoro e quanto è scaturito invece da un’analisi sociale globale?
«Basamento è un’opera del 2015 che ho ricreato nella cornice di questa mostra. A quel tempo avevo lavorato con un’immigrata messicana, in questa occasione l’ho fatto con una haitiana. Basamento prende vita da due realtà differenti che però confluiscono nel contesto dell’immigrazione negli Stati Uniti, il privilegio di cui godono i cubani come immigrati e dall’altra parte l’invisibilità che vivono altre comunità di migranti latini. L’opera mette in discussione i parametri selettivi di cui tengono conto le autorità in materia di immigrazione negli Stati Uniti per accettare migranti o rifugiati politici. Qual è il ruolo che riveste ciascun immigrato qui? Dipende dalla sua nazionalità d’origine? Quanto contribuiscono all’economia di questo Paese i milioni di lavoratori immigrati illegali? Ho scelto di lavorare a Miami con haitiani perché i genitori di mio nonno materno erano haitiani, ed emigrarono a Cuba a metà del 1920 arrivando a Holguín scappando dalla povertà e dalla miseria. Questa versione di Basamento presenta dati biografici molto precisi, ma si inserisce in una realtà sociale che va ben oltre la mia storia personale».

Sei tra gli artisti invitati al Padiglione di Cuba, curato da José Manuel Noceda, alla prossima Biennale di Venezia. Cosa rappresenta per te questa partecipazione? Puoi anticiparci qualcosa sul tuo progetto? Realizzerai una nuova performance?
«Partecipare a questa edizione della Biennale di Venezia è davvero un grande onore per me. Per la Biennale realizzerò una nuova performance intitolata Mediterraneo. La mia attenzione si focalizza sul dramma dell’immigrazione africana in Europa, nello specifico in Italia. Le cifre delle persone morte annegate nel Mar Mediterraneo negli ultimi 15 anni sono davvero allarmanti, stiamo parlando di più di 29mila persone e ci riferiamo solo a una stima basata sul numero dei corpi rinvenuti; la cifra esatta non si saprà mai ma è sottinteso che sono molte di più. La responsabilità di queste morti non ricade solo sui Governi in conflitto in Africa, ma anche su un elevato numero di Paesi europei, che con il business della vendita di armi appoggiano le guerre locali nel continente africano. Per realizzare questa performance verranno trasportati più di mille litri d’acqua dalle coste del Mar Mediterraneo fino a Venezia. È un progetto molto ambizioso, che non sarebbe possibile senza la collaborazione della Galleria Rossmut».
A proposito: è in corso fino al 17 aprile a Roma un’importante personale curata da Diego Sileo alla Galleria Rossmut. Per l’occasione, è stato pubblicato il tuo primo libro antologico intitolato “Vivere nel tuo corpo”. Il titolo ci riporta alle parole di Gina Pane quando afferma che “vivere il proprio corpo” equivale all’indagine e alla scoperta della “debolezza”, della “servitù tragica e impietosa” dell’essere umano, dei “fantasmi”, che sono “il riflesso dei miti creati dalla società”. Che importanza assume la critica, la ricomposizione o destrutturazione del proprio corpo? Quanto è centrale per te il rapporto tra il biologico, lo psicologico e il sociale?
«Di questi tempi diventa cruciale la necessità di un’arte critica rispetto alle problematiche che ci coinvolgono e dalle quali non possiamo scappare o fuggire. Come anche sul modo in cui ne veniamo coinvolti e su come posizioniamo il nostro corpo. È importante il modo in cui una persona si riscopre individualmente attraverso la critica e come vengono rivalutati il corpo e il sistema di pensiero. Io ho a disposizione lo spazio del mio corpo che è come un laboratorio per andare oltre ciò che presumibilmente si deve fare con lui. Questa società è contro il fatto che un individuo sperimenti su se stesso seguendo un percorso libero. Il mio corpo è l’unico elemento che posso arrivare a conoscere completamente, ma il mio corpo possiede una memoria collettiva che si rivela di continuo nelle mie relazioni sociali, e che al contempo spiega molte cose di me. Con la performance esploro la mia vulnerabilità e al contempo approfondisco e rivelo quella degli altri».

In Trofeo, al PAC di Milano nel 2016, l’azione richiama i corpi colonizzati e violentanti nel flusso ciclico della Storia dell’uomo riportandoci fino alle aggressioni alla violenza e alle persecuzioni attuali. Tuttavia rilevo una forza estetica importante attraverso la vista del tuo corpo nudo disteso sul pavimento e trafitto da una lancia: un’immagine sublime che rivendica e riscatta l’uomo di colore da qualsiasi stato d’inferiorità?
«Nessuna Nazione sfugge a quella che io chiamo “la cospirazione globale” contro le persone di discendenza africana. Negli Stati Uniti le persone di colore continuano a essere la fascia della popolazione più colpita dalla brutalità delle forze dell’ordine, dalla marginalità o dall’HIV. Nell’America Centrale la maggior parte della popolazione di colore vive isolata sulle coste, come nel caso dei Garífunas che stanno lì, dimenticati dai politici mentre continuano a perdere le loro tradizioni. La popolazione afro-messicana di Guerrero (Messico) non viene considerata messicana, non è riconosciuta dal Governo per il semplice fatto che la loro pelle è più scura; non importa se sei di terza, quarta, o quinta generazione nata in Messico: sei nero, sei condannato a non essere di nessuna parte. Attualmente ci sono case farmaceutiche nella Repubblica Dominicana che producono prodotti per schiarire il tono della pelle, prodotti che sono anche cancerogeni. Le persone li usano tranquillamente, perché pare che essere neri sia una maledizione, e perché la società dominicana si rifiuta di accettare la sua componente afro, dato che implicherebbe accettare che i suoi nemici, gli haitiani, siamo molto più che vicini con un “brutto carattere”. Che succede in Europa? Lì il razzismo è parte dei discorsi nelle campagne politiche. Un francese viene assassinato e nel mondo intero esplodono proteste che durano giorni, in una scuola in Nigeria 60 bambini vengono massacrati dalla guerra, nel modo più atroce, e dove sono i titoli? Ci interessa quello che accade in Africa oggi? Quando ti importa dell’africano? Quando diventa un “problema” sulle tue coste? Trofeo rimanda alla violenza che oggi soffrono le persone di discendenza africana a livello globale, una violenza che possiede profonde radici coloniali, e alla considerazione del nero in America e nel mondo, come un individuo inferiore, come un oggetto, come mercanzia. C’è un certo modo di pensare razzista che non è ancora cambiato e che continua a rendere inferiore l’individuo nero. Nessuna opera d’arte può cambiare tale pensiero, ma può renderlo visibile, denunciarlo, metterlo in discussione».
Può l’arte quindi essere realmente uno strumento attivo di denuncia sociale o rientra solo negli strumenti di lettura e analisi della nostra memoria collettiva?
«L’arte è entrambe le cose e molto altro…».
Michela Casavola

Nasce a Taranto nel 1976, è critico d’arte e curatore indipendente. Laureata in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università del Salento, si è successivamente specializzata in comunicazione visiva e arte contemporanea a Roma e a Berlino dove ora vive. Ha collaborato con diverse testate del settore. Ha curato mostre in spazi privati e pubblici e pubblicato cataloghi di artisti. Collabora da diversi anni con il Centro d’Arte Contemporanea Torrione Passari.

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