Categorie: Personaggi

Il diavolo si è fermato all’Albergo Diurno

di - 29 Marzo 2017
Anche quest’anno con la primavera bollente dell’arte milanese, tra Miart e Salone del Mobile, torna l’iniziativa del FAI che riaccende le luci dell’Albergo Diurno Venezia (da oggi al 14 maggio), affidando all’arte la reinterpretazione contemporanea dell’affascinante atmosfera dal tempo sospeso che strega i sotterranei di Piazza Oberdan.
Dopo Sarah Lucas, tocca a Flavio Favelli (Firenze, 1967) ripensare gli spazi del Diurno in un allestimento site-specific, dove alla ricostruzione minuziosa degli ambienti progettati da Pietro Portaluppi negli anni ’20 si sovrappone il suo stratificato immaginario. Così gli arredi, le insegne, le vetrine, i decori, gli oggetti da bagno pubblico in perfetto stile Decò si mischiano a tracce sbavate di storie minori che lì si sono consumate e ora vivono la loro ribalta, e a pezzi di vita privata dell’artista che si incollano come adesivi postumi illuminati al neon di installazioni sopravvissute agli anni ’80. Favelli costruisce un set straniante in grado di cogliere l’essenza “diabolica” di un luogo incastrato nel limbo di un tempo senza tempo, tra un passato che non è più e un futuro che non è ancora. Un luogo, che come un ricordo ingombrante, non può che riproporsi filtrato dal presente nell’eterno ritorno di un senso sempre spostato che è «l’alba e insieme il tramonto», un po’ memoria e un po’ oblio. Come ce lo racconta l’artista.

Come sei intervenuto in uno spazio così denso di storie che non sono la tua?
«Per la verità c’è molto della mia storia. Il Diurno è un pezzo di casa mia. Ritrovo molti segni, molte tracce, arredi, cose di case dove ho vissuto. Ho eletto come speciali certi oggetti, certi mobili, certi ambienti perché fanno da tramite rispetto al mio passato. Ho vissuto spesso coi mie nonni nati la seconda decade del 900, eredi e testimoni del 19esimo secolo in case piene di ricordi e memorie dove i segni della Repubblica facevano fatica a vedersi. Dagli attrezzi ai lampadari, dalla ferramenta degli armadi alle maniglie in bachelite, dalla radica all’avorio, tutto testimoniava tempi e modi differenti, completamente altri. Tutto ciò lo accosto a loro, partecipi insieme a me di una storia familiare molto complicata. I miei nonni materni erano rappresentati della borghesia bolognese, un mondo di regole e modi sapientemente regolato. Mia nonna recitava le preghiere con un rosario di granato e argento e amava le slot machines che si trovavano solo ai casinò. Erano troppo giudiziosi –come usava dire Tosca – per avere solo un robusto credo in Dio, Patria e Famiglia. Sarebbe stato troppo banale, troppo sconveniente e in fondo troppo poco divertente. Il Diurno è insieme la Bella Époque, forme Déco e Art Nouveau, e adesivi di plastica del Caffè HAG e cassoni luminosi con scritto Barbiere. Se la mia casa fosse sotterrata e riscoperta dopo tanto tempo, gli archeologi troverebbero le stesse tracce del tempo e di oggetti simili a quelli che c’erano al Diurno. Quando un artista pensa, allestisce, rinnova, progetta un luogo, e diventa poi suo. Ho cambiato la luce del primo salone con dei neon e ho illuminato i due corridoi in fondo con delle insegne: non è più il Diurno Venezia. È il Diurno Favelli Venezia».

Il tuo lavoro si può definire l’esito di un collage di immagini e tempi diversi. In che modo il passato stratificato del Diurno si sovrappone al vissuto e all’immaginario che ti appartengono, per essere poi filtrati dal tuo sguardo del presente e costruire qualcos’altro, un nuovo ‘senso’?
«Guardando dentro i bagni singoli, con le docce e le vasche ci sono arredi e pezzi di cose che tracciano un storia minore che appartiene alle mie immagini e mi commuove allo stesso tempo. Un lavandino sostituito in ceramica nera forse degli anni 60 convive con piastrelle di vetro finissimo e vasche monumentali, quasi sarcofaghi funebri che ci mandano slides che scorrono dentro di noi. Gli immancabili oggetti in alluminio, leggeri e futuristi. C’è anche molta violenza se si ascolta questo luogo. Nato fra le più due più apocalittiche guerre della nostra storia, un luogo che si prende cura del corpo in tutti i sui aspetti sottoterra –il corpo sottoterra ci va quando è nella cassa- è un luogo equivoco. Il Diurno è un luogo ambiguo fatto con grande speranze, novità, rivoluzioni e si aggiusta poi diventando bar, barbiere, ritrovo, agenzia di viaggio. È il luogo effimero per eccellenza, artificiale, è un luogo delle vanità che ci porta dritto alla Vip Lounge di oggi. Quando il FAI apre questo luogo c’è una folla immensa a visitarlo, è un posto molto amato dai milanesi anche se molti non ci sono mai stati quando era aperta. E questo perché il Diurno è un posto moderno, con le prime pubblicità, con la scritta TERME con un ninfa in bronzo in una fontana che sta poco sopra le fogne; è la nostra origine ambigua, dove i bagni profumati erano nelle case dei ratti: nelle vecchie foto assomiglia un po’ ad un alto bordello o a un salotto del Titanic. E cosa c’è di più affascinante di una cosa che sta per affondare? C’è poi questo senso di decadenza originario, non solo perché è a pezzi, ma perché la data scritta nel pavimento all’entrata del corridoio dei cessi, il 1925, è una data che è decadente come tutto quel periodo. Tutto questo per me è filtrato dalla storia delle mia famiglia custode di questo immaginario, ed io, figlio unico, bambino solo e ora unico erede porto con me tutta questa roba, dalla cassa di ferro dell’Esercito Italiano di mio nonno che si portò nella campagna di Russia, fino alla sua acqua di colonia Roger & Gallet, dalle foto delle vacanze a Riccione, luogo eletto del Duce, fino alla casa di Pavana, con le immancabili piastrelle in graniglia colorate e dense di decori».


“SENSO 80” è dunque un cortocircuito dove il tempo è sospeso e passato, presente e futuro coesistono. Perché tale scenario ricorda i ‘diabolici’ anni ’80 evocati anche dal titolo?
«Gli anni 80 sono anni così intensi che bisogna scomodare le categorie del maligno, del demonio, per venirne a capo. Come artista –e come è nella natura dell’arte- non distinguo fra bene e male, giusto e sbagliato e quindi il demoniaco è solo una grande opportunità per scendere negli inferi di quegli anni. Mi colloco in quegli anni perché li ho vissuti con grande intensità, mi ricordo tante cose, così tante che anche oggi penso così tanto a quegli anni che un po’ li rivivo con musiche, oggetti, cose e in qualche modo cerco di ricostruirne certi pezzi, certe parti di miei momenti. Esattamente come al Diurno, le case dove ho vissuto sono state intaccate dai prodotti –i prodotti!- di quegli anni potenti in luoghi che rappresentavano e testimoniavano l’epoca di fine 800 e inizi 900. “Senso 80” è una trama sotterranea in un luogo sotterraneo che però chiama anche altri nomi… Messico 70, Pop 84 , Airport 77: è anche una questione di ritmo».
La tua pratica artistica, anche in questo caso, si appropria del meccanismo della memoria e, così, un passato ormai andato ritorna differito dalla lente del presente. Qual è, se esiste, lo scarto tra arte e ricordo?
«Preferisco parlare solo di ricordo, memoria è una parola che non mi piace; presuppone una cosa più ampia, più sociale con qualcosa di necessario per una comunità. Mi sento un autore solo che parla della sua storia personale e che questa, per il fatto che è anche la storia di un artista, può avere a che fare con la memoria, ma ci va per conto suo, non perché a me interessi. Il mittente e il destinatario rimango io. L’arte cerca di ricordare i punti oscuri del ricordo. Negli album di fotografie di famiglia ci sono solo dei gran sorrisi che l’arte scavalca, oltre che per riesumare cadaveri, anche per trovare tesori sepolti. Questi assemblaggi, il mettere insieme pezzi –e i cocci sono tanti- per cercare di rifare e ricomporre un qualcosa, un qualcosa che però alla fine è roba nuova. Credo che lo scarto fra arte e ricordo non sia così profondo, perché il risultato, per me, è il medesimo. Sto parlando di un piacere tanto misterico quanto dolce, tanto ambiguo quanto doloroso, che provoca questa pratica del ricordo o del ricostruire forme nuove partendo da immagini, suggestioni e oggetti del mio passato. Un perturbante anche se è familiare, perché in questo caso la famiglia non è familiare ma è proprio il luogo dell’equivoco. È la storia della famiglia borghese italiana».
L’Albergo Diurno è uno dì quegli affascinanti luoghi-limbo, sospesi tra un passato che non può tornare e un futuro ancora tutto da immaginare. Come ti piacerebbe immaginarlo?
«Il fatto che il FAI lo renda visitabile poche volte all’anno lo mantiene ad un’ottima temperatura per serbare desideri, immagini e passioni che ne fanne un luogo non ben definito e appunto sospeso. In un’epoca dove cambia tutto in poco tempo, dalle versioni ai modelli, mantenere un posto scassato, malmesso e délabré può essere una grande idea per le città che vogliono sempre di più assomigliare a Vancouver. Credo poi che ci sia un problema di sicurezza, ci sono solo due entrate-uscite distanti fra loro e questo può essere una gran fortuna. Un posto insicuro è ancora più intenso».
Martina Piumatti

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