Categorie: Personaggi

Il fabbricante di metafore

di - 5 Ottobre 2012

Richard Artschwager (1923, Washington D.C.) ha avuto la sua prima mostra personale all’età di quarantadue anni nella ormai mitica galleria newyorkese di Leo Castelli, fino a quel momento l’artista era dibattuto fra il desiderio, anzi l’urgenza, di esprimersi attraverso l’arte, in particolare la pittura, e il dovere di avere delle entrate mensili regolari per mantenere una moglie e una figlia. Dopo una laurea in fisica alla Cornell University nel 1944 e una successiva esperienza artistica come allievo del pittore parigino “purista” Amédée Ozenfant, che certamente influenzò la sua produzione artistica successiva, verso la fine degli anni Cinquanta inizia a disegnare e produrre mobili dalle linee semplici e funzionali, esperienza che si rivelerà fondamentale per lo sviluppo della sua poetica artistica.

È nei primi anni Sessanta che Artschwager comincia a interrogarsi sulla possibilità di coniugare la forma minimale del design industriale con la sua sensibilità di artista, la scoperta di un nuovo materiale, luminoso e resistente: la fórmica, fu fondamentale per l’inizio di una sperimentazione artistica, ancora oggi difficile da incasellare in un preciso movimento, ma che certamente è stata influenzata sia dalla Pop Art che dal Minimal. Artschwager afferma che: «La scultura è per il tatto, la pittura per l’occhio. Io volevo fare una scultura per l’occhio e un dipinto per il tatto» ed è quindi su questo doppio filone di ricerca che concepisce dei “mobili-scultura” sovradimensionati, luminosi e brillanti che catturano e incantano lo sguardo non solo per il cromatismo, ma soprattutto per il loro non essere definibili nella loro potente fisicità e allo stesso tempo ricorre al “cellotex”, materiale plastico usato per realizzare i suoi dipinti dalla “texture” decisamente materica.

A Roma, da Gagosian, per la prima volta un “solo show” di questo pluri-ottuagenario gigante dell’arte moderna, che presenta la serie completa dei pianoforti, oggetti affascinanti e spiazzanti che sembrano usciti da un “cartoon” o da un’allucinazione. Piano del 1965 è squadrato, tozzo, rivestito di fórmica marrone simil-legno, potrebbe quasi sembrare vero, ma i tasti enormi, e i pedali giallo canarino anch’essi sovradimensionati ci riportano all’oggetto paradosso, concetto caro alla Pop Art ma che Artschwager modula in maniera totalmente nuova e spiazzante.

L’installazione di pianoforti nella sala ovale della galleria è grandiosa e straniante ed è proprio l’irrealtà delle proporzioni delle tastiere che ci riporta indietro nel tempo, e forse nello spazio, in un mondo bambino in cui i pianoforti sono gli affascinanti strumenti-giocattolo che popolano un colorato parco-giochi. Piano Grande (2012) è un maestoso pianoforte a coda, il coperchio all’interno è rivestito di materiale specchiante che riflette amplificandolo il disegno geometrico rosso che decora la coda dello strumento, PianoPiano (2011) sembra una grande scatola, un parallelepipedo colorato su cui è disegnato un pianoforte a coda, sappiamo che è un pianoforte ma non è un pianoforte è un’illusione, un giocattolo per giganti da suonare con la forza della fantasia.

I riferimenti colti non mancano Piano/Malevich (2012) è un pianoforte “verticale” rosso bordato di nero su cui spiccano i tasti bianchi, un omaggio suprematista a uno dei padri dell’arte moderna. Piano Fort (2011) è un piano “surrealista”, uno strumento impossibile con i tasti che sono scivolati verso il bordo inferiore mentre al loro posto cinque punti esclamativi giganti brillano sul fondo giallo richiamando la nostra attenzione, ma lasciandoci senza risposte come uno sberleffo dadaista.

Portare gli oggetti di uso domestico nella dimensione dell’arte, per farli diventare dei simulacri di usi e abitudini, dei distillati di azioni mancate per la loro impossibilità di essere utilizzati e negare quindi con la loro presenza imponente il concetto di utilità che normalmente è a loro connessa è la sfida di questo fabbricante di metafore. La creazione diventa quindi libero arbitrio per formalizzare un mondo di apparente “non-sense” ma allo stesso tempo ludico e accattivante, come solo un demiurgo un po’ burlone può fare.

Artschwager è certamente un’artista del paradosso che non smette di stupire, inquietare e, soprattutto, porre interrogativi, questi suoi strumenti inermi mi hanno fatto pensare al XVI secolo dove, in quel di Castelfranco Veneto, un piccolo paese della marca trevigiana, un giovane Giorgione dipinse un mirabile fregio per decorare il cornicione del muro di un palazzo nobiliare, l’artista era un neoplatonico colto e raffinato e in quell’affresco cercava di dare un messaggio a chi poteva capirlo, tanti gli strumenti musicali a corde raffigurati e tutti rigorosamente privati delle corde, quindi muti, prefigurazione di una catastrofe? Di un momento politico incerto? Chi ha studiato quel particolare dipinto conferma l’ipotesi. E allora, cosa dobbiamo pensare di Artschwager che costruisce degli strumenti che non possono essere suonati? Forse che la musica è finita o forse non c’è mai stata e abbiamo vissuto un’illusione di felicità? Ci muoviamo come ciechi in un mondo di ombre e gli artisti che decodificano la realtà in maniera diversa dalla nostra sono gli unici che forse  possono darci delle indicazioni, forse fumose, talvolta violente, spesso travestite da altro, ma necessarie per attivare i nostri anestetizzati processi mentali. Rappresentare quello che sembra ma non è, è certamente una provocazione e forse anche una denuncia di un sistema in agonia, ma al di là della dietrologia che sottende tutta l’arte contemporanea, prepotente rimane l’opera che parla e affascina con il suo mistero anche se non può suonare.

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