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02
marzo 2016
Il fantastico (e sfigato) mondo dell’arte
Personaggi
VA A TEATRO
Una performance racconta sogni e fallimenti degli under 35. Ci dice tutto l'ideatore, Filippo Andreatta
Una performance racconta sogni e fallimenti degli under 35. Ci dice tutto l'ideatore, Filippo Andreatta
OHT, acronimo che sta per Office for Human Theatre, torna a teatro con Debolezze, secondo atto di una performance – series tutta dedicata alle inadeguatezze umane del mondo moderno. In scena ritroviamo il nebuloso mondo dell’arte contemporanea e le conseguenti difficoltà di entrare a farne parte (nella sezione exibart.tv trovate una clip dello spettacolo).
Più Genitori Ricchi per Tutti è il mantra dell’intero spettacolo, un’affermazione d’impotenza onesta o anche l’autoironia di una generazione di giovani aspiranti produttori di cultura che finiscono, precari e preparati, a scontrarsi senza soluzione di continuità con l’idea di dover fare di meglio, di essere scelti tra tanti. In una cultura dove i racconti di formazione funzionano solo se a metà tra il miracolo e l’epopea, la propensione al continuo miglioramento si trasforma in una gabbia dal quale – forse – ci si può riscattare solo rivendicando le proprie umane debolezze. Ne abbiamo parlato con il regista e ideatore, Filippo Andreatta.
Debolezze è la seconda parte di un racconto iniziato con lo spettacolo Autoritratto con due amici, il cui titolo suggerisce una dimensione autobiografica, cosa racconta?
«È la storia di un rapporto di amicizia tra un artista e un curatore che fanno due cose nello spettacolo: la prima è inviare una serie di applications che vanno sempre male, ricevendo dai musei lettere di risposta sempre scritte sotto forma di buoni consigli per i giovani artisti, come ad esempio : rischia, commetti degli errori, perché solo così stai facendo effettivamente ricerca. Ma nella vita concreta – come nel caso delle applications – questo consiglio di fare errori vuol dire non andare da nessuna parte. L’altra cosa che fanno sono degli esercizi catartici al fine di gridare, ma non ci riescono mai».
In questo autoritratto, tu saresti l’artista?
«Questa performance-series è il tentativo non di mettere in scena se stessi, ma delle emozioni che si conoscono molto bene. E poi, è anche un discorso autoironico. Credo che la maggior parte degli artisti – soprattutto quelli under 35 – passino il 60 pere cento del loro tempo a mandare applications e forse non dovrebbero farlo. Dovrebbero lavorare sulle proprie opere, sulla propria ricerca, anche se non sempre si ha la possibilità di farlo».
Nel secondo atto, Debolezze, Patrick il curatore vince una borsa di studio dal Palais de Tokio, ma questa opportunità non sembra cambiarlo molto. Lo ritroviamo a fumare canne in un campo di basket della periferia di Parigi, ragionando sull’inadeguatezza della perfezione. Che ruolo ha l’arte in questo?
«Ricordo di aver letto che per la sua istallazione al Museion -Zuerst die Füße ndr- Martin Kippenberger aveva preso ispirazione dal detto di Beuys “Ogni uomo è un artista”, che è un detto molto bello, democratico, ma che eleva il ruolo dell’artista a qualcosa di più alto di un lavoro normale. Da un lato è così, ma da un lato non lo è. Kippenberger con il suo lavoro aggiungeva che anche ogni artista è un essere umano, aveva capovolto la cosa, che è esattamente quello che diciamo noi nel nostro spettacolo, riportare l’artista ad un livello comune».
Quella raccontata nei primi due spettacoli non sembra soltanto la condizione degli artisti, ma della generazione under 35 in generale.
«Giusto! Infatti tutto il mio lavoro è ispirato agli studi sociologici di Richard Sennett riguardo al carico emotivo rispetto al contesto professionale. Da qui vengono prese delle piccole idee per ciascun spettacolo. Ad esempio, il terzo atto si intitolerà Mercury Thirteen e l’idea è di raccontare la condizione di una persona che ha le capacità per fare un lavoro ma non riesce a farlo. Sarà uno spettacolo con solo donne in scena, perché Mercury Thirteen era un progetto degli anni ‘50 per mandare tredici donne nello spazio, ma è stato rigettato dalla NASA, che al tempo stava già progettando Mercury Seven – sette uomini nello spazio. L’idea non è femminista, quello che per me è più interessante è raccontare la storia una persona che ha la capacità di fare una cosa, ma nessuno gli da l’opportunità per riuscirci».
Riesci ad avvicinare al teatro un pubblico giovane parlando della sua generazione?
«Se i teatri mi dessero l’opportunità, si. Ma siccome i teatri in Italia nella maggior parte dei casi sono diretti da persone anziane e intellettualmente vecchie, no. È molto difficile anche spiegare che puoi creare un contatto con un’altra tipologia di pubblico e che stai facendo uno spettacolo per portare a teatro quei ragazzi che fumano le canne. In Italia non si ragiona mai per fare un teatro per tutti, ma solo per una fetta di spettatori».
Tra le produzioni di OHT ci sono anche performance ed istallazioni museali, cosa distingue i diversi campi?
«Credo che il 50 per cento del lavoro sia negli occhi dello spettatore. È divertente perché per me quello che noi produciamo è una cosa molto chiara, è sia uno spettacolo che una performance, ma cambia in base a dove la metti e chi la guarda . In generale mi piace molto lavorare sul ritmo delle cose. Quando guardo una cosa capisco qual è il tempo che deve avere, questo è forse quello che mi piace di più in assoluto del teatro e una delle ragioni per cui faccio un’arte time-based che può essere anche una performance, o un film. Se avessi l’occasione farei un film».
Roberta Palma