Categorie: Personaggi

Il futuro del MACRO? Cercatelo negli studi

di - 12 Giugno 2014
Guglielmo Castelli, Nemanja Cvijanović, Anna Franceschini, André Romão sono gli artisti selezionati per la quinta edizione del programma “Artisti in residenza” al MACRO. Ospiti del programma dallo scorso febbraio fino all’apertura della mostra finale di oggi, gli artisti hanno lavorato ai propri progetti mentre il museo viveva i giorni difficili che ben sappiamo.
La mancanza di un direttore e il dimezzamento dello staff sono stati la cornice nella quale ogni artista ha trovato le proprie soluzioni e risposte, non permettendo alle problematiche di carattere politico di limitare in alcun modo la propria ricerca.
Ho incontrato i residenti nel proprio studio che diviene, come in ogni residenza, un piccolo microcosmo nel quale oggetti, parole e opere trovano un equilibrio sempre nuovo, ma stabile.
La prima domanda che mi viene da porre loro è perché abbiamo scelto di partecipare alla selezione per una residenza qui. Guglielmo Castelli è il più giovane, e la sua è la prima residenza che il museo assegna ad un artista che si occupa principalmente di pittura, una responsabilità che Guglielmo sente, ma che non gli ha impedito di mettersi in gioco: «Volevo confrontarmi con una realtà museale, con spazi più grandi, ma anche con i curatori, i critici e con gli altri artisti, credo nel gioco di squadra».
Per Nemanja è stata invece la seconda volta alle selezioni: voleva assolutamente misurarsi con una realtà del calibro del MACRO in questo momento della sua carriera. Anna e André condividevano invece l’esigenza di trascorrere un periodo di ricerca a Roma: la Franceschini dopo aver vissuto diversi anni tra Milano e Amsterdam, voleva concentrarsi nuovamente su un progetto nato in Italia; Andrè prima di arrivare nel Belpaese aveva lavorato a lungo sull’antichità e i classici: «Ero alla ricerca di un’istituzione che supportasse la mia ricerca offrendomi uno spazio di riflessione fisico e mentale, ed un sostegno economico».
Questo ciclo ha visto però concretizzarsi il controsenso di ospitare degli artisti in un museo inattivo, ma ancora aperto al pubblico. Come sottolinea Nemaja «Il museo funziona perfettamente per quanto riguarda i custodi, il bar, la didattica; nonostante non vi sia una vera gestione in ambito curatoriale l’edificio funziona alla grande, quel che manca sono i contenuti». Indubbiamente la mancanza di un direttore, di gran parte dello staff e di un programma culturale sono ciò che gli artisti hanno maggiormente sofferto, eppure dai nostri incontri emerge chiaramente quanto i quattro residenti abbiano percepito e reagito in modo del tutto personale e differente a ciò che stava accadendo intorno a loro.
«Il periodo peggiore per il museo – racconta Andrè – ha coinciso con un periodo di ricerca durante il quale sono stato molto concentrato ed entusiasta del mio lavoro e non ho risentito realmente di questa situazione. Ho fatto molte residenze e so che la struttura non lavora per te, sei tu a dover lavorare per te stesso. Roma è stata molto accogliente, ho incontrato persone interessanti, e instaurato buoni rapporti con altri artisti. Roma mi ha ricordato molto Lisbona, questo rapporto tra gli artisti è infatti caratteristico delle scene più piccole, dove è possibile attivare un maggiore scambio».
Gugliemo Castelli ha, invece, fatto dell’isolamento e del vuoto un eccezionale punto di svolta per i suoi lavori: «Per me non c’è una dimensione migliore di questa dal punto di vista poetico. Le difficoltà oggettive mi hanno aiutato ad espandere il silenzio dei miei lavori». Le figure antropomorfe dipinte da Gugliemo si trovato ad occupare per la prima volta dipinti di grandi dimensioni, simili a pale d’altare, nei quali i colori pastello dalle tonalità fredde si fondono con i suoi soggetti, donando una sempre maggiore fluidità del tratto pittorico.
Il tempo che separa l’inizio e la fine di questa esperienza di residenza è stato fondamentale per sviluppare, ripensare e talvolta riprogettare il lavoro proposto da ogni artista. E se ciò può essere avvenuto in parte per le circostanze contingenti è pur vero che molto spesso un progetto di residenza si rivela essere un’esperienza del tutto imprevedibile, come sottolinea André Romão: «Ho proposto al MACRO una progetto che in corso d’opera è totalmente cambiato, e ciò è dipeso dal fatto che non è possibile prevedere come sarà l’esperienza effettiva in una nuova città, lavorare all’interno di un dato museo, entrare a contatto con un sistema artistico differente o quale sarà l’input iniziale che darà il via al tuo lavoro».
Il progetto presentato al MACRO da Andrè, infatti, partiva dall’idea di un corpo/fantasma, presente ma non visibile, quale luogo di negoziazione erotico/economica: «Erotico perché la prima forma di economia e scambio è basata sul desiderio – spiega l’artista – economico perché ciò che ci domandiamo nel momento in cui desideriamo qualcuno è “come posso guadagnare o prendere qualcosa da te, come posso soddisfare me stesso con te?”». Romão porta avanti la sua indagine in una continua comparazione tra visioni, oggetti e strutture culturali proprie dell’antichità e del contemporaneo. L’arrivo in Italia lo ha portato a rintracciare una nuova idea di corpo nel suo lavoro, orientando la ricerca verso l’esplorazione di una fisicità tangibile. Found footage di pubblicità commerciali, immagini di antiche statue di bronzo senza occhi e appunti di componimenti letterari dialogano tra loro, ospiti della pareti dello studio, durante il nostro incontro, in attesa della mostra finale.
Anna Franceschini ha invece deciso di lavorare in questi mesi a Selador, una piattaforma artistica, il cui nome, come spiega l’artista, «È una delle molte distorsioni dei due termini cellar e door, e viene descritta come la parola che possiede il suono più dolce in lingua anglosassone». Questo progetto le ha permesso di dare ampio spazio a rapporti di collaborazione: «Durante quest’esperienza – rivela Anna – sono tornata a fare più sperimentazione, come agli inizi del mio lavoro». La prima tappa del progetto è stata Videogiochi, realizzata con Diego Marcon e Federico Chiari, i quali «Mi hanno accompagnato in una narrazione video e sonora che ripropone storie fatte di piccoli oggetti senza importanza, trasportati e poi fatti cadere da un rullo trasportatore». I diversi oggetti vanno così a comporre veri e propri tableau teatrali, composizioni che si rigenerano costantemente e si caricano di valore aggiunto attraverso il significato che lo stesso pubblico identifica nella performance di volta in volta.
Per taluni aspetti anche il lavoro portato avanti da Guglielmo Castelli lascia ampio spazio ad una scelta interpretativa da parte del pubblico, ma attraverso un percorso del tutto differente. La ricerca di Guglielmo parte dal principio metodologico del Rasosio di Ockham, espresso nel XIV secolo dal filosofo e frate William of Ockham, che suggerisce l’inutilità di formulare teorie aggiuntive per spiegare un dato fenomeno, se quelle già presenti bastano alla formulazione del fenomeno stesso. Il rasoio taglia le teorie aggiuntive eliminandole. Mettendo in dubbio che le teorie eliminate possano essere realmente meno importanti di quelle già esistenti, poiché ogni individuo propone sempre una interpretazione personale dei fenomeni, Guglielmo Castelli compone un universo pittorico di personaggi colti nell’attimo prima o subito dopo aver compiuto un’azione. L’artista indaga l’infanzia quale luogo delle prime esperienze, quell’età in cui non si è ancora giunti a maturazione, ma si sta inevitabilmente crescendo. La bellezza o il timore delle “prime volte dell’infanzia” si materializzano negli ostacoli, nelle protesi, nelle stampelle che accompagnano e circondano i protagonisti nell’incertezza tra l’essere un sostegno o un limite, scelta che l’artista lascia allo spettatore.
Nel caso di Nemaja Cvijanović la scelta di cambiare totalmente l’oggetto della propria ricerca, durante il periodo di residenza, è strettamente dipeso dalle circostanze nelle quali si è trovato al suo arrivo: «La situazione del museo mi ha spinto a cambiare progetto, il primo era un progetto universale, che avrei potuto presentare dovunque, mentre questo lo definirei Italy specific, più adatto a raccontare la situazione romana». Nemaja sta lavorando su tre film dal forte contenuto politico: L’albero di Guernica, film surrealista del 1975 che attacca duramente il rapporto di alleanza tra la chiesa e il franchismo durante la guerra civile; Salò di Pier Paolo Pasolini e La Salita di Mario Martone, dove uno dei protagonisti recita una battuta che Nemaja trova emblematica: “Si tace di tante cose Antonio, c’è chi vuole un mondo diverso e chi questo mondo vuole migliorarlo solo un po’, ma come si fa a migliorare il male?”. Probabilmente ispirandosi ai personaggi delle tre pellicole l’artista realizzerà dei pastori napoletani con le sembianze dei protagonisti, esaltandone il carattere grottesco.
Se Anna e Guglielmo condividono dunque la scoperta di una maggiore libertà nel processo che ha portato le proprie ricerche a sperimentazioni inattese, Nemaja e Andrè guardano a questo “stato di emergenza” che il museo vive da prospettive opposte. «Non sono un artista che lavora in studio – spiega Nemaja – e non avrei comunque mostrato il processo del mio lavoro durante gli open studio, perciò ho deciso di allestire una mostra collettiva (curata con Maria Adele Del Vecchio), come risposta alla situazione di abbandono del museo. Vengo dalla Croazia, li esistono i musei, ma manca un mercato che sostenga l’intero sistema. Ciò ha comportato negli ultimi anni la nascita di associazioni non governative che si occupano di promuovere e sostenere gli artisti attraverso un programma basato sul dialogo con le istituzioni nazionali». André, invece, viene dal Portogallo, e racconta di aver concluso gli studi, tra la Facoltà di Belle Arti dell’Università di Lisbona e l’Accademia di Belle Arti di Brera nel 2007, in concomitanza dell’esplosione della crisi globale: «So bene cosa significa lavorare in condizioni precarie. Ho iniziato a collaborare con la mia prima galleria quando si era già entrati nel momento di crisi economica. Penso che si debba lavorare con quello che si ha, certo bisogna sempre domandare di più, ma bisogna lavorare con quello che si ha. Forse la mia è una prospettiva più cinica, ma sono convinto che l’importante sia lavorare seriamente».

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