Dal 1989 Ilya ed Emilia Kabakov collaborano assieme costituendo uno dei più importanti duo del mondo dell’arte. Nelle loro opere echeggia il disappunto per la società sovietica in cui sono cresciuti e che hanno lasciato per trasferirsi in occidente, precisamente negli Stati Uniti d’America, dove già nel 1988 Ilya ha avuto la sua prima retrospettiva alla Ronald Feldman gallery di New York, con opere inviate oltreoceano e a cui non poté presenziare. Ai tempi di Brežnev era ancora difficile viaggiare fuori dall’Urss, ma anche essere riconosciuti come artisti, nonostante Ilya Kabakov fosse uno dei pochi che riuscivano a lavorare in maniera ufficiale come illustratore di libri per bambini, relegando al privato e in maniera autonoma la produzione artistica principale. Dai tempi del concettualismo moscovita ad oggi, il duo ha partecipato ad esposizioni internazionali di grande livello ottenendo il consenso di critica e pubblico. Da pochi giorni si è inaugurata a Londra la retrospettiva “Not Everyone will be Taken into the Future” alla Tate Modern, di cui racconta Emilia Kabakov, intervistata in occasione della presentazione a Capalbio di The Ship of Tolerance, progetto di portata internazionale seguito dalla Kabakov Foundation. Iniziato nel 2005, consiste in un percorso di partecipazione rivolto soprattutto ai bambini, coinvolti nella creazione di una barca di legno le cui vele sono composte dai loro disegni. Idealmente la nave viaggia per i mari del mondo per favorire il dialogo tra diverse culture e affrontare il tema della tolleranza. Dopo essere sbarcata a Roma, la nave è approdata a Capalbio da dove è ripartita per Palermo, Rostock, Salonicco e, appunto Londra.
The Ship of Tolerance a Capalbio, foto Federico Loda
Perché portare The Ship of Tolerance in Italia e a Capalbio?
«L’Italia è uno dei paese che ha più rifugiati e immigranti, diffusi in tutto il Paese. Abbiamo portato la nave a Venezia nel 2009, quest’anno a Roma, ma ad essere importante non è il luogo in cui si svolge il progetto quanto che le persone prendano coscienza. Capalbio è tra i posti in Italia che hanno accolto meno e dove i bambini vivono in una società molto agiata, ma non tutti siamo fortunati alla stessa maniera e noi cerchiamo di provocarli affinché acquisiscano conoscenza della situazione e desiderino aiutare. La nave è un simbolo mentre il progetto è lungo e si rivolge ai bambini tramite un programma educativo sulla tolleranza proposto nelle scuole. Non si parla solo di rifugiati ma anche di bullismo, ed è importante parlarne ai bambini che sono in un’età sensibile e ricettiva».
Dalla prima realizzazione del progetto sono passati dodici anni: cosa è cambiato?
«Abbiamo un numero crescente di rifugiati e immigrati da tutto il mondo, dobbiamo imparare a gestire la situazione e superare le divisioni generate dalla paura. Ci sentiamo obbligati a dare tutto quello che abbiamo, chi arriva ha bisogno e chiede di avere tutto. Entrambe le parti dovrebbero imparare a portarsi rispetto e a comunicare. Nel 2005 abbiamo iniziato in Egitto con una comunità berbera molto religiosa, con ragazzine che si sposavano a dodici anni e i bambini non uscivano mai di casa. Un casino! Il progetto pilota aveva lo scopo di spiegare agli ottocento bambini di quella comunità come sin dall’antichità la cultura e la conoscenza si siano diffuse nel mondo grazie alla nave. Abbiamo iniziato realizzando disegni con ragazzi di Manchester e bambini locali che non sapevano le rispettive lingue, ma hanno trovato il modo di comunicare in un secondo. In quell’occasione abbiamo pensato di allargare il progetto. A Venezia abbiamo lavorato assieme a progetti sociali e alla scuola sui problemi di integrazione dei bambini stranieri. Il progetto, cui ho partecipato personalmente, è stato realizzato durante l’intero anno scolastico grazie all’aiuto degli insegnanti. Nel 2012 abbiamo portato a Cuba dei bambini americani, per la prima volta dal 1958, e hanno passato una settimana assieme ai piccoli del luogo, suonando e visitando luoghi e musei. Anche se sono passati cinque anni sono ancora amici. A Zurigo ha partecipato tutta la città, anche le scuole, e abbiamo messo rifugiati e locali uno di fronte all’altro e dopo essersi urlati e trattati male adesso si aiutano a trovare casa e lavoro. Le madri, che accompagnavano i bambini agli incontri per disegnare, non avevano niente da fare e quindi hanno iniziato a comunicare. Zurigo è oggi un simbolo per noi e il progetto è entrato nel programma di altre tre città vicine».
Ilya Kabakov (b. 1933) The Man Who Flew Into Space From His Apartment 1985 Six poster panels with collage Centre Georges Pompidou, Paris. Musée national d’art moderne/Centre de Création industrielle. Purchased 1990. © Ilya & Emilia Kabakov
Cos’è per te la tolleranza?
«È l’abilità di comunicare attraverso l’arte, la cultura, la musica, è il non avere paura degli altri, di conoscere, ed è il rispettare l’opinione altrui e i punti di vista diversi».
Mi sembra che questa visione sia fondata su un certo grado di ottimismo.
«Credo che questo sia il risultato dell’essere cresciuti nella società sovietica, che era fondata sull’utopia e sul credere di poter costruire un futuro migliore. Il problema della società sovietica è che prevedeva la necessità di distruggere tutto per poi ricostruire il nuovo: una nuova società, un nuovo mondo, nuove persone. Ma questa visione non è stata fatta per noi, né per i bambini, ma per persone immaginari del futuro. Noi cerchiamo di farlo per i bambini che sono il presente, perché se non si inizia a cambiare il mondo oggi, non ci sarà un futuro per loro».
In riguardo a questo tema, il titolo della vostra retrospettiva alla Tate, “Not everyone will be taken into the future”, introduce invece una visione negativa ed elitaria dell’utopismo.
«In questo caso riguarda l’arte e non la nostra vita nel mondo. Lo stato mentale della nostra società è molto critico e instabile. Con tutto ciò che sta avvenendo siamo diventati tribù, ognuna è una comunità particolare di persone con un proprio leader e che ha paura delle altre, così combattiamo l’uno con l’altro. È iniziato in Jugoslavia, è accaduto in Iraq, può essere una guerra ideologica o di religione, ma noi non vogliamo vivere in una società divisa a tribù bensì in un mondo unito. È un processo già in corso con l’Europa unita e ancora prima con gli Stati Uniti d’America. Vogliamo veramente tornare indietro? Per questo vogliamo che i bambini pensino alla tolleranza e anche dovesse trattarsi di un’utopia noi ci proviamo. Not everyone will be taken into the future tratta invece argomenti connessi all’attività dell’artista. Esistono due tipi di artista, quello che guarda al proprio lavoro e dice: “Chi ha realizzato questo lavoro? È fantastico, sembra fatto da Dio” mentre l’altro si chiede: “Come ho potuto fare un lavoro talmente terribile? Non sarò portato nel futuro, oppure sì, ma chi lo deciderà? Il mio maestro? Un critico d’arte? Un giornalista? Malevič? Kandinskij? Chi è il giudice?”».
Ilya Kabakov (b. 1933) and Emilia Kabakov (b. 1945) Not Everyone Will Be Taken into The Future 2001 Wooden construction, railway car fragment, running-text display and paintings MAK – Austrian Museum of Applied Arts / Contemporary Art, Vienna © Ilya & Emilia Kabakov
Esiste un’opera omonima realizzata nel 2001 sul tema dell’insegnamento nel mondo dell’arte e il suo ruolo nella gerarchizzazione sociale. Si tratta di una ripresa dello stesso tema?
«Da sempre Ilya è nervoso sul suo essere artista o meno. Nel 1982 ha scritto un articolo con questo titolo, ripreso per l’installazione presentata alla Biennale di Venezia nel 2001 e per la mostra alla Tate che è anch’essa legata a quel testo».
Cosa si vede alla Tate?
«La retrospettiva include lavori dal 1954 ad oggi e comprende dipinti e installazioni, tra cui Labyrinth (My mother’s album) dedicata alla relazione tra Ilya e la madre. È molto poetica perché lui l’ha amata molto ma da quando è morta, ha iniziato a pensare di non essere stato una bravo figlio e di non avere fatto abbastanza per lei. Ma forse questo è un problema di tutti i figli nei confronti delle madri. Sua madre ha avuto una vita molto difficile, come molte donne nell’Unione Sovietica e in molti altri Paesi. Poi sono presenti nuovi dipinti. In questa mostra abbiamo voluto comunicare che Kabakov ha iniziato con la pittura negli anni Cinquanta e non l’ha mai lasciata, piuttosto ha inserito i suoi dipinti nelle sue installazioni che sono dei veri e propri dipinti a tre dimensioni. Da sempre la pittura è una finestra su una parete quindi guardare un dipinto significa guardare il mondo e l’installazione ti fa entrare in una finestra tridimensionale».
Alessandra Franetovich